“Volevo raccontare le case di Cechov ma sono rimasto colpito dai drammi degli anni ’30”. “Ho raccolto le voci e le storie: credo che il disegno aiuti a rendere gli stati d’animo”
L’intervista/ È uno dei grandi autori di graphic novel: “Il mio ultimo lavoro è sull’Ucraina dei kulaki”
“Volevo raccontare le case di Cechov ma sono rimasto colpito dai drammi degli anni ’30”. “Ho raccolto le voci e le storie: credo che il disegno aiuti a rendere gli stati d’animo”
L’intervista/ È uno dei grandi autori di graphic novel: “Il mio ultimo lavoro è sull’Ucraina dei kulaki”
Dopo aver letto Quaderni ucraini – Memorie dai tempi dell´Urss, una graphic novel in uscita da Mondadori, si ha l´impressione che il segreto della Russia sia nella sua pazienza infinita: il solo efficace anticorpo per riuscire a contrastare l´alleanza perversa che talvolta si instaura tra la natura e l´uomo. Come altro interpretare la rassegnazione con cui quel popolo guarda agli incendi indomabili, alle temperature polari, alle contaminazioni radioattive, alla fame e all´oppressione? Sembra questo lo spirito con cui Igort – che in realtà si chiama Igor Tuveri ed è nato a Cagliari ma vive a Parigi – ha affrontato quell´ampia parte di mondo eternamente sospesa tra l´Asia e l´Occidente.
Igort è tra i più bravi autori di fumetti che ci sono in Europa. La sua graphic novel 5 è il numero perfetto è stata pubblicata in undici paesi e ha vinto i maggiori premi internazionali. Quaderni ucraini – già uscito in Francia nel mese di giugno – verrà presentato al Festival della letteratura di Mantova: è il segno che la distanza tra il romanzo e il fumetto è molto meno ampia che in passato.
«C´è meno diffidenza. Siamo come dei topoloni ammessi al tavolo degli scrittori», dice ironico.
Perché ha scelto l´Ucraina, un argomento che starebbe molto bene nelle pagine di un libro di storia?
«La scelta è nata in modo casuale. Sono andato in Ucraina per realizzare una graphic novel sulle case di Cechov. Ma non le ho visitate. Sono rimasto scioccato, molto prima, dall´incontro con la gente, dai luoghi che ho visto, dalle situazioni che ho trovato. A quel punto, ho pensato che forse valeva la pena fare una riflessione, con il linguaggio del fumetto, intorno a tutto quello che avevamo creduto di capire su 70 anni di comunismo e su come da loro è stato vissuto e smaltito».
Non è un po´ presuntuoso entrare in un mondo così lontano da noi e credere di poterlo raccontare?
«Non è stata la visita del turista o del viaggiatore improvvisato. Ho vissuto per un anno e mezzo in quei posti. Sentivo che quello che vedevo e che maturava dentro di me dovesse essere raccontato. Avevo un´interprete che viaggiava con me. Ho cominciato a fermare le persone che mi colpivano e a chiedere di raccontare la loro vita, le loro storie. Così è nato questo libro: on the road».
E lei crede che il fumetto sia un linguaggio efficace?
«Perché no. La bellezza del fumetto è che col disegno – che non è solo descrittivo ma anche evocativo – puoi veramente far capire come sono i paesaggi, le persone, i loro stati d´animo. I reportage disegnati si contano sulle dita di una mano. Ho molto amato quelli cinematografici di Wenders, di Herzog, di Antonioni. Da loro ho capito che quando provi a raccontare un certo tipo di verità devi seguire la realtà e non starle davanti, magari servendosi di artifici retorici».
Le testimonianze del suo “reportage” raccontano di uomini e donne che hanno attraversato la parte terribile del Novecento. È stato difficile farli parlare?
«Come diceva la Politkovskaja, lì non c´è proprio l´abitudine ad affrontare in termini analitici la propria vita. Però se superi la loro resistenza e si fidano, allora diventano dei fiumi in piena».
Alcune di queste storie cominciano con la terribile carestia che ci fu in Ucraina all´inizio degli anni Trenta. È sconvolgente apprendere come lottarono per sopravvivere e quanti tra loro non ce la fecero.
«Le deportazioni, la fame, la morte coinvolsero milioni di persone. I kulaki, contadini ricchi, innanzitutto che erano più di sei milioni e di quasi tutti non si sa che fine abbiano fatto. Ho chiesto al mio amico Goffredo Fofi: “Voi intellettuali di sinistra non potevate non sapere del genocidio dei kulaki. C´erano i documenti. Le prove. Ma lo avete vissuto come un dettaglio, un aneddoto”».
E Fofi cosa le ha risposto?
«Che si era tutti un po´ invasati. Certamente è diverso se la tragedia l´apprendi più che dai libri di storia, dalle bocche degli sventurati che ancora vivono. Serafina Andreievna, nata nel 1928, in un villaggio ucraino, mi raccontava perché i bambini, come lei, rischiavano di essere rapiti e mangiati durante la grande carestia. Maria Ivanovna, nata nel 1925, che ho conosciuto davanti a un centro commerciale mentre con una bilancia chiedeva ai passanti se volevano pesarsi per pochi copeki, mi ha parlato della vita di stenti del suo villaggio ucraino: del terrore che la polizia di Stalin vi aveva introdotto, del cannibalismo, delle vendette. O Nicholay Vassilievich, nato nel 1926, la cui storia sembra quella di Giobbe, tante sono state le sofferenze che gli hanno inflitto».
C´è qualcosa che unisce queste voci?
«Tutti costoro sono vissuti in prossimità della morte, hanno fatto i conti con qualcosa che al fondo è indicibile. A unire le loro voci è l´arte della pazienza e la disciplina del dolore. Hanno accettato tutto, come se tutto fosse inevitabile. Non è che oggi sia diverso. La vita continua a valere poco o niente. Se negli ospedali non hai soldi per pagarti le cure, il detersivo per lavare le lenzuola, il filo per ricucire il taglio, in poco tempo sei sbattuto fuori. La caduta dell´Unione Sovietica ha generato una voragine».
Di quali proporzioni?
«Incalcolabili. Non cerco di dare giudizi, voglio che a parlare siano le cose. L´Ucraina di ieri era la parte di un immenso impero, quella di oggi è una particella che non sa se andare verso l´Europa o verso la Russia. Gli ucraini furono annientati dallo stalinismo e molti sono oggi nostalgici di quel passato. Questo è il paradosso che Kapuscinski chiamava “il mistero russo”».
È un mistero anche per lei?
«Non ho la presunzione di conoscere a fondo quel mondo e quegli animi. Sto preparando un secondo Quaderno dedicato alla Russia e alla Siberia. Dopo la sua morte, sono andato in casa della Politkovskaja, ho parlato con i suoi vicini e quando sono uscito da uno di quegli incontri avevano appena ammazzato Stanislav Markelov, il suo avvocato, nonché avvocato delle cause cecene. E Anastasia Baburova, giovane stagista che lavorava alla Novaya Gazeta. Certi argomenti nella Russia di oggi non si possono toccare. Tutto è kafkiano, corrotto, pericoloso. Ho intervistato un antiquario russo che mi ha detto: “Qui pensiamo che la democrazia sia una convenzione dell´occidente”».
Torna il tema della rassegnazione.
«Chernobyl non ha insegnato nulla, il sottomarino atomico con i suoi morti non ha insegnato nulla, gli incendi non insegneranno nulla. Questa è la realtà. E la sensazione che il muro non sia affatto caduto».
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