La guerra e il dopoguerra sono anche uno status della coscienza e della mente nelle situazioni di ordinarietà e nelle relazioni della quotidianità
1. L’immaginifica ombra – 2. Gli ostaggi – 3. La vita marchiata – 4. Il filo di speranza
Un quadro imperfetto è anche il risultato dello sguardo imperfetto di chi lo contempla. Le imperfezioni del quadro si mescolano con le imperfezioni del nostro sguardo. L’autore proietta le imperfezioni oltre il quadro, mentre noi le proiettiamo oltre lo sguardo. Il prima e il dopo di quadro e sguardo si scambiano continuamente di posto. È un sottile gioco di rimandi estetici ed etici.
A una fenomenologia del genere non si sottraggono gli eventi storici, quanto più complessi e dolorosi essi sono. Il tempo storico ha anche un andamento subdolo: è anche tempo vuoto dell’avanzare attraverso un accumulo di giacenze inerti, in cui il prima spiega interamente il dopo e il dopo interamente il prima. L’astuzia del tempo è ben più temibile di quella della ragione. Liberare il tempo significa stanarne l’intima astuzia che lo afferra e governa. Un’astuzia fatta di dominio e manipolazioni che si tratta di smascherare.
L’ombra dell’astuzia ricopre il tempo e lo manipola, diluendolo in icone che, una volta raffigurate, condannano il tempo all’eterna prigionia. In un tempo che non è mai lo stesso, le icone dell’astuzia spandono in eterno le stesse sequenze logiche avvelenate, quanto più le riproducono interstizialmente. Archetipi e stereotipi diventano un tuttàuno: gli uni costruiscono e giustificano gli altri. Fino a diventare luoghi comuni della coscienza collettiva e dell’immaginario sociale: cioè, pseudocertezze simboliche irremovibili.
La trasformazione delle immagini in icone e delle icone in pseudocertezze è qualcosa di più raffinato e complesso della falsa coscienza della rappresentazione ideologica della realtà e, perfino, della liofilizzazione massmediatica della comunicazione interumana. Le icone, cristallizzandosi, costruiscono la storia per immagini: la congelano in una immaginifica fissità . Diventano una sorta di mare del vuoto in movimento. La dinamica delle icone può essere descritta come movimento del vuoto che finge di riempirsi, replicando, in realtà , l’identico con figurazioni apparentemente diverse.
Ogni guerra ha il suo dopoguerra e proviene da una pace armata che l’ha preparata in maniera certosina [1]. E intendiamo qui guerra e dopoguerra non in senso esclusivamente o eminentemente militare. La guerra e il dopoguerra sono anche uno status della coscienza e della mente nelle situazioni di ordinarietà e nelle relazioni della quotidianità . Come ben ci ha insegnato la grande Ingeborg Bachmann, esiste una trincea umana che anticipa la guerra e al suo interno si commettono gli omicidi più crudeli, nell’indifferenza generale: in essa, le atrocità sono l’amaro pane quotidiano di cui, in silenzio, gli umani si cibano [2].
Qual è il dopoguerra di questa trincea? Come questa trincea silente accoglie e fa suo il cessato crepitare delle armi? Ma le armi smettono mai di crepitare? Non càè sempre qualcuno, nel mondo, contro cui scaricano la loro macabra musica?
Si è tutti braccati dal dolore e dal male. Le vittime sono prese d’assalto dal sentimento di ingiustizia che, non di rado, fa loro invocare vendetta. Come ha modo di osservare Dostoevskij, gli esseri umani si vendicano, perché solo nella vendetta riescono a trovare giustizia, convincendosi, così, di compiere una cosa giusta e onesta[3]. Il loro furore è giustificato: è umano; come disumano è il loro dolore. I colpevoli, per parte loro, sono bollati: icone del male in forma di dèmoni. E lo sono soprattutto i colpevoli sconfitti. Il destino dei vinti somiglia al destino delle vittime. Con la ragguardevole differenza che, in guerra, i vinti hanno varcato la soglia dell’offesa della vita altrui; mentre le vittime no. Diventati vittime, i colpevoli sconfitti hanno da attraversare una immensa distesa, cominciando dal loro proprio deserto interiore. Se sono convertiti (oppure si lasciano convertire) in icone, questo percorso di riflessione e trasformazione è inibito.
Il cammino di liberazione dall’ombra delle icone è un viaggio per uscire dal pianeta oscuro del (proprio) tempo e della (propria) vita. Ma non solo le vittime e i colpevoli sono immersi in questo pianeta: tutti siamo sprofondati in esso e ognuno a suo modo. Ognuno e tutti devono a loro modo balzarne fuori. Ognuno deve entrare in rotta di collisione con l’icona di sé che per lui è stata confezionata e che si è cucito addosso con le proprie mani, infrangendo l’icona dell’Altro che trova interposta sulla strada che lo conduce verso di lui.
Lottare contro le icone richiede, però, due mosse preliminari: scendere dal piedistallo del moralismo e rifuggire le pulsioni dell’odio e del rancore. In ciò, nostro grande maestro è Feodor Dostoevskij [4]. Fatte queste due mosse, dobbiamo avere il coraggio di partire da due princìpi cardine, posti con grande nettezza sempre da Dostoevskij:
- noi ignoriamo completamente cosa sia veramente la vita umana e, perfino, ognuno ignora di sé chi e cosa veramente sia [5];
- nessun essere umano, per quanto posto in cattività , può mai essere considerato totalmente inerme o reso un cadavere spettrale, sino a quando la vita gli scorre nelle vene [6].
Aggirare l’ombra paludosa delle icone vuole dire viaggiare verso le profondità della vita e del proprio Sé. Qui ricomincia il contatto con l’Altro. Qui, a maggior ragione, nasce l’energia per la redenzione dalla guerra e dal dopoguerra: non si è più controfigure di un copione crudele e mal recitato; ma esseri vitali in movimento e in dialogo. Nessuno è totalmente innocente in queste regioni oscure. L’innocenza è solo la speranza che alimenta il dialogo di avvicinamento al Sé e all’Altro. Gli occhi e il cuore vanno al di là delle maschere: aggirandosi tra le imperfezioni del quadro e quelle dello sguardo, si può iniziare a distinguere il dolore dal male e si può fare del male un transito, non più ossessionati dalla colpa e dalla punizione.
Le icone del dopoguerra si caratterizzano, principalmente, per il fatto di generare, sublimare e distribuire colpa; ma è un discorso di potere che, a sua volta, le genera[7]. Alla base, il potere è il discorso che produce colpa, per assoggettare i colpevoli. Ancora meglio: per il potere, a rotazione, tutti sono colpevoli e, dunque, tutti sono da assoggettare. L’essenza del potere è l’estensione generalizzata del rapporto di sudditanza, in maniera può o meno esplicita e più o meno mascherata. Per questo, il potere si serve strumentalmente della giustizia, quanto più la riduce a una macchina senza cuore. Ed è questa macchina che, in modo selettivo e differenziato, colpisce tanto le vittime che i colpevoli: subdolamente, mobilita le vittime contro i colpevoli e i colpevoli contro le vittime.
Tutti qui finiscono con l’essere a rotazione vittime e colpevoli. Ciò rende possibile al potere di blandire all’infinito le vittime e apporre, altrettanto infinitamente, lo stigma sui colpevoli. A ben guardare, però, vittime e colpevoli sono messi ai margini del discorso pubblico. Le retoriche della vittimizzazione sono un dispositivo terribile di evacuazione del principio di libertà : in quanto vittime, non si è liberi e la propria parola è resa un rituale inascoltato e inefficace. La libertà delle vittime è surrogata dalla punizione dei colpevoli: il dolore del Sé trova qui unico lenimento nel dolore dell’Altro. Il governo del Sé si prolunga, così, in governo dell’Altro e, reciprocamente, il governo dell’Altro retroagisce come governo del Sé.
Queste tecniche di controllo e di comando servono e segnano un permanente regime di stato di eccezione, entro cui sono confinati vittime e colpevoli: inascoltate e usate le prime; stigmatizzati i secondi. L’ombra delle icone diluisce e, insieme, protegge dallo sguardo critico il quadro di questo stato di eccezione: non si limita a ereditarlo, ma lo riproduce e innova indefinitivamente. Il governo dei corpi e del corpo sociale passa qui non per il tramite dell’istituzione del regime perturbante della paura, ma attraverso l’istituzionalizzazione dello status furente del dolore.
Il governo del dolore assoggetta i corpi e il corpo sociale, piantando le pietre miliari di uno stato di eccezione che socializza una condizione di sudditanza psico-politica, su scale progressivamente più intense e ampie. Il potere di elargizione della sovranità è qui spuntato e surclassato. La sovranità ora si costruisce come negazione del dono: il potere, più esattamente, cancella la donazione dai sistemi delle relazioni sociali e interpersonali. La sovranità -mondo accelera ed espande i propri poteri globali e locali, quanto più cancella le forme della gratuità e del dono dal tessuto sociale e dall’esperienza umana [8]. Possiamo, così, concludere: la sovranità -mondo si regge sulle architetture della crudeltà e del cinismo che consolidano e rendono produttivo lo stato di eccezione del governo del dolore. In tale stato di eccezione, vittime e colpevoli sono intossicati dalla stessa sostanza letale.
Quale differenza incolmabile si può cogliere tra l’uomo perduto e l’uomo giusto? Nessuna, ci insegna Dostoevskij [9]. Anzi, è proprio questa differenza lo spazio che siamo chiamati a colmare. Ma possiamo formulare un interrogativo ancora più temerario: è proprio vero che tra l’uomo giusto e l’uomo perduto vi sia una cesura netta e definitiva? Non è, forse, vero (ed è ancora Dostoevskij a dirlo) che l’uomo giusto che non riesce a sfiorare il corpo e sentire il palpito dell’uomo perduto finisce col perdere irrimediabilmente se stesso [10]? E non è qui che Dostoevskij tocca le vette del suo supremo e permanente dialogo con Cristo?
Che la legge sia eguale per tutti è un principio giusto. Ma il principio di eguaglianza formale nasconde delle insidie assai pericolose. Parificando, la giustizia si allontana dai cuori e non riesce a essere dono della vita. Ispirandoci ancora a Dostoevskij, possiamo dire: eguagliando secondo formalità astratte, la giustizia rischia di trasformare i colpevoli in mummie, poiché non ne avverte il respiro, l’anelito di libertà e le speranze di redenzione. Una giustizia così fatta rischia di scivolare verso l’impostura, perché finisce catturata dall’ammasso di insensatezze e crudeltà di cui è costellata l’esistenza umana.
Ora, le icone della guerra e del dopoguerra strappano alle vittime e ai colpevoli proprio la speranza e, con essa, la possibilità di lavorare a un progetto di felicità : la felicità è qui, addirittura, impensabile. Tutt’al più, si è qui destinati al calvario della sofferenza e della penitenza irredimibili. La disperazione che non spera: ecco ciò che, secondo questi glaciali dispositivi di comando e di controllo, unisce vittime e colpevoli, per i quali sono forgiate catene tanto diverse quanto riunificanti. La giustizia che livella secondo icone giuridiche perverte se stessa, perché non riesce più a difendere la vita: dimentica che mai, fino alla morte, tutto è perduto e che, dunque, tutto può cambiare e, quindi, va salvaguardato e salvato in funzione di questa possibilità .
Allora, propriamente parlando, la giustizia va coniugata come trasformazione e speranza: trasformazione della speranza e speranza nella trasformazione. La giustizia può mantenere accesa la fiammella della vita, se la sua frequentazione degli orrori umani non la riempie di disprezzo, risentimento o indifferenza per l’umanità e i suoi disastri. Ed è ancora Dostoevskij a soccorrerci. Egli ci insegna che il principio giustizia non è equivalente al principio verità , ma a esso deve ispirarsi: la verità dell’umanità sta nei suoi inferni ed è in essi che va ricercata e risvegliata [11].
Il delitto e il male agiscono come fermenti della morte; ma è proprio lì che la vita deve rinascere. La giustizia che si ispira alla verità deve essere una sorgente di donazione proprio di questa rinascita [12]. La sofferenza di essere nel precipizio è la molla della risalita da esso: dal nulla all’esistenza, si potrebbe dire, è il cammino qui tracciato. Le icone della giustizia, quanto più inclinano verso gelide alchimie formali, finiscono ingabbiate in un nulla ontologico e, quindi, non possono che distribuire gabbie. Ciò ci fa pertinentemente dire: la giustizia che ambisce a farsi macchina di produzione della verità si avvicina alla realizzazione pura e semplice dell’inquisizione. Le icone immaginifiche della guerra e del dopoguerra non sono altro che strumenti letali di questo discorso e di queste pratiche di potere.
Scendendo più nel dettaglio, dobbiamo osservare che le icone della guerra e del dopoguerra producono un’immagine della società , non solo il reticolo simbolico e comunicativo entro cui rimangono impigliati i vari comportamenti degli attori sociali. È su questo versante che possiamo cogliere, con maggiore precisione, le linee di continuità e di discontinuità che si distendono tra le icone della guerra e quelle del dopoguerra. Ogni dichiarazione di guerra porta con sé un’immagine della società . A guerra conclusa, vinti e vincitori producono nuovamente immagini di società : la società vittoriosa costruisce e reclamizza se stessa come la società virtuosa (il migliore dei mondi possibili).
In genere, l’opzione lasciata ai vinti è l’alternativa dissolvente tra assimilazione e silenzio coatto. Insorgendo contro questa alternativa, i vinti continuano a produrre un’immagine di società che non necessariamente è quella che avevano azionato come “combattenti”. Anzi, attraverso il discostamento dall’immagine di società belligerante prima coniata, nel loro DNA originario viene incuneata una linea di rottura. Ora, la lacerazione del loro DNA vale come convalida e, insieme, metamorfosi della loro posizione critica dell’ordine politico, sociale e culturale dato. Qui i vinti impattano, in un sol colpo, contro le icone della guerra e del dopoguerra che essi stessi avevano potentemente contribuito a costruire. La sconfitta dà qui luogo alla rinascita, come in una narrazione dostoevskijana. Dalla menzogna viene estratta la verità che, in quanto tale, è sempre scomoda per il potere che, per definizione, è esercizio della menzogna. Per questo, i vinti e gli sconfitti che aspirano all’esercizio della parola altra vengono supremamente avversati dal potere.
I vinti e gli sconfitti compiono un ulteriore passo in avanti, laddove fanno impiego di linguaggi creativi, anziché far uso di discorsi. Come ci ha insegnato Foucault, il discorso ha sempre finalità di potere, dal quale è indissociabile; il linguaggio, invece, compone la libera dialogica tra i soggetti parlanti e, in questo senso, ha una natura polemica costruttiva e inventiva [13]. Il potere è il prodotto di un discorso che, a sua volta, mette insieme ed esercita un effetto di dominazione. Il discorso celebra e, insieme, occulta i conflitti per il potere che, via via, assettano le forme della società e la posizione che i dominati in essa assumono. Foucault, non a caso, critica puntigliosamente la legittimazione della sovranità e le teorie che le corrispondono. Grazie a lui, siamo introdotti in vere e proprie lezioni di storia dalla parte dei dominati.
Il potere di dominazione sposta qui i codici della guerra verso un nuovo ordine del discorso: la politicizzazione degli strumenti della guerra. La politica si fa guerra, travestendosi sotto le forme di una sovranità ipertrofica che costruisce e dilata lo stato di eccezione. Ciò ha reso possibile non solo la riproduzione allargata, nel tempo e nello spazio, dei codici eccezionali della “lotta al terrorismo”, ma ha trasformato il governo dell’emergenza dapprima in regolarità del ciclo politico e successivamente in elevazione dell’eccezione a norma.
La normativizzazione dell’eccezione e la regolazione normativa per via eccezionale costituiscono i fulcri del nuovo ordine di discorso di un potere che si fa tanto più complesso e capillare quanto più dosa e integra sapientemente norma ed eccezione, politica e guerra. Di questa sovranità complessa e decentrata sono ora vittime i vinti e gli sconfitti; e con loro tutte le classi e sottoclassi spoliate dalla globalizzazione. Gli effetti di coercizione sono serrati e implacabili, di carattere materiale e, ancora di più, simbolico e culturale. A questo stadio, le icone della guerra assorbono quelle del dopoguerra e la pace, così, non è mai pace, ma – parafrasando von Clausewitz – “la continuazione della guerra con altri mezzi”.
Già Foucault, aveva individuato questa crepa nelle teorie della sovranità e nella polemologia clausewitziana, rovesciando la gerarchia delle priorità tra politica e guerra[14]. A dire il vero, egli si era spinto ancora più lontano, fino a configurare apertamente il conflitto e/o la politica come guerra e la storia come storia della guerra [15]. Il sovrano è qui il vincitore e la sovranità è relazione di potere, per così dire, emanata da una molteplicità di rapporti di forza, attraverso una guerra di conquista [16]. Insomma, per Foucault, il potere è la stratificazione differenziale e mobile di concatenazioni di forze e lotte che costituiscono e finalizzano la guerra in funzione della dominazione. Ciò rende conto di un doppio postulato foucaultiano: (i) non vàè potere senza resistenza e (ii) non vàè resistenza senza potere [17]. Dal che è possibile farne discendere un terzo: (iii) il gioco tra potere e resistenza non cristallizza mai risultati definitivi e immodificabili, ma mette in campo effetti reversibili, a seconda del mutevole bilanciamento e scatenamento delle forze [18].
L’analisi foucaultiana, sul cui merito non mette conto qui pronunciarsi, ci serve per dispiegare uno stringente filo di ragionamento. Se la guerra è il campo reale in cui si esercitano i mutevoli rapporti di forza, la posta in gioco vera non è la conquista del potere in sé, ma l’assoggettamento degli sconfitti e dei dominati ai codici dell’assimilazione e del silenzio. La sovranità come sovranità politica della guerra si sfrena come assoggettamento delle svariate resistenze che si sono opposte al potere e che sono continuamente insorgenti. L’ombra della guerra, di nuovo e più pervasivamente, incorpora il dopoguerra, per estendere all’infinito il suo cupo orizzonte. La guerra qui governa la pace, tentando di trasformare la resistenza in pura energia inerziale e l’immaginario sociale in neoconformismo diffuso.
La sovranità , allora, è l’icona della guerra che produce le icone del dopoguerra, regolandone forma e sostanza. Una volta di più: i vinti, gli sconfitti, i dominati devono tacere, esiliati nella loro terra di origine che qui deve valere in perpetuo come origine della sconfitta e del silenzio. Ecco perché, per i vinti, gli sconfitti e i dominati, le icone del dopoguerra sono la strutturazione delle immagini di una messa al bando. La sovranità è qui sovranità del potere di esilio in patria. La topologia della guerra struttura uno spazio genealogico che non è altro che la storia delle lotte dei dominati contrapposte ai giochi di potere dei dominanti: cioè, linguaggi e racconti di resistenza contro discorsi di potere [19].
Il punto di crisi è qui dato dall’irruzione del campo dell’etica dentro lo spazio politico. Quello che appare politicamente chiuso e risolto nella sovranità politica della guerra, non lo è affatto nella genealogia delle forme storiche delle soggettività dei dominati. Nelle lotte di resistenza al potere cogliamo unàetica della salvezza di sapore dostoevskijano, a misura in cui esse prendono la distanza dal titanismo dell’utopia politica e si fanno frammento della forza-immaginazione utopica. La svolta è qui data, in contemporanea, dal ripiegamento riflessivo dentro di sé e dall’estroflessione contro i meccanismi di dominio di cui si è vittime e, insieme, partecipi.
Quelli che in Dostoevskij si delineano come processi di salvezza, qui possiamo definirli come consapevolizzazione etica del Sé in relazione all’Altro, per la costituzione di relazioni affrancate dal potere. L’etica viene qui alla luce come critica e fuoriuscita dalla menzogna (del potere). La salvezza è, allora, creazione del campo della irriducibilità etica alla sovranità politica e alle logiche di dominio presenti in ogni forma di relazione interumana [20]. Qui il flusso continuamente aperto è tra il Sé e l’Altro, il Qui e l’Altrove. In tale vortice si rimescolano continuamente le carte della libertà e della salvezza. Non casualmente, è proprio il campo di tensione dell’etica che le icone del dopoguerra intendono asportare.
Il narcotico del potere si esercita a vuoto, quanto più le verità dei dominati appaiono chiaramente in opposizione alle verità dei dominanti. I due elementi sconfinano continuamente uno nell’altro, determinandosi e rideterminandosi a vicenda. Le verità della resistenza contro le verità del potere: pare, questo, lo scenario entro cui scorre la dialettica storica. Ma pare, appunto. Il potere non è mediazione tra le opposizioni: soprattutto, non è la ricomposizione mimetica dei contrari. È, sì, vero che occupa tutti i territori politici e socio-culturali, riarticolando di continuo il rapporto tra locale e globale; ma è altrettanto certo che è chiamato a governare spazi e soggetti di cui deve negare la dimensione etica.
Ciò appare particolarmente vero per i poteri accentratori e, insieme, decentrati e decentranti della globalizzazione. La sovranità -mondo dell’epoca della globalizzazione pone alla base della sua legittimazione la sospensione definitiva della giustificazione etica del potere [21]. In un movimento di estrema complessità e articolazione, essa:
- fa esplodere tutte le retoriche mercatistiche, le pulsioni individualistiche e le spinte narcisistiche tipiche della società capitalistica;
- rialloca simbolicamente e topograficamente la legalità della guerra: làumanità guerriera della modernità (dai Conquistadores alla schiavitù fino al colonialismo) [22]cede il passo alla inimicizia globale guerreggiata che prende in ostaggio il pianeta, persino in nome dell’affermazione dei diritti umani [23].
Nel nuovo scenario globale, è la situazione della vittoria, non tanto della conquista, che il potere difende e perpetra all’infinito: la perdita progressiva della parola, dei linguaggi e dei diritti costituisce ora la condizione dei dominati. In ragione di ciò, le guerre contro l’umanità sono diventate preventive [24]. Si può conquistare, senza riuscire a vincere. Vincere non è semplicemente rendere inermi o espandere, da una posizione di signoria assoluta, il gioco e il giogo delle armi. Vincere, piuttosto, significa integrare attraverso la sconfitta: cioè, diffondere ad arte un pensiero e una cultura della disfatta, con cui tumulare i corpi e le anime degli sconfitti.
I vinti e gli sconfitti debbono avere come loro perpetuo orizzonte di vita l’interiorizzazione della disfatta, i cui codici garantiscono ai dominanti la trasformazione della conquista in vittoria, poiché costituiscono il mezzo migliore della diffusione enfatica e dell’assimilazione irriflessiva del quadro di valori della società vittoriosa. Siamo qui posti innanzi alla dismisura dei poteri globali e alla loro sconfinata sete di dominio [25]. Ma quella che, sul punto, reperiamo è una dismisura illusoria: nessun potere può cancellare la resistenza; anzi, quanto più intende perseguire questo obiettivo, tanto più lo fallisce. Emerge qui una delle controfattualità più dirompenti dei poteri globali: la regressione continua dalla vittoria alla conquista, con tutto il carico di eventi cruenti che ne deriva.
La guerra contemporanea è un processo assai più complesso sia a paragone dell’analisi consegnataci da Clausewitz che della penetrante ricostruzione genealogica trasmessaci da Foucault. Guerra e politica non sono soltanto ognuna la continuazione dell’altra con mezzi diversi, ma impastano un ordine politico e simbolico di nuova generazione, incardinato sulle verità menzognere della comunicazione massmediatica [26]. La tecnoscienza moderna esplode nella scienza del grado zero della comunicazione della verità : non è più l’eccesso di informazioni che qui rende ignoranti; ma è il comunicare stesso che si fa menzognero, coltivando, per questa via, la soppressione dei diritti e l’analfabetizzazione culturale di massa. L’inimicizia globale guerreggiata configura l’estremo del grado zero della comunicazione massmediatica.
Di questo nuovo ordine politico-simbolico i vinti e gli sconfitti costituiscono l’ostaggio su cui non viene mai mollata la presa. Essi sono catturati da dispositivi di controllo tentacolari, incistati nel tessuto sociale come ethos della guerra. La contro-etica della sovranità -mondo coniuga un ethos belligerante, secondo il quale ai vinti e agli sconfitti non va riconosciuta nessuna dignità e alcuna moralità . La grande Marguerite Yourcenar, invece, commentando un altrettanto grande libro [27], ammira il “senso di identità con l’universo” degli sconfitti, poiché si lascia prendere dalla “pietà per il vinto e l’amore delle cause perdute” [28]. Per lei: “l’amore delle cause perdute e il rispetto di quelli che muoiono per esse mi sembrano propri di tutti i luoghi e di tutti i tempi” [29]. Questa etica della dignità umana si eclissa del tutto: l’ethos della guerra disonora i vinti e gli sconfitti, piantando uno stigma perpetuo nelle profondità della loro carne.
Ora, l’ethos della guerra è anche un pensiero per immagini e, quindi, produce e riproduce le sue icone [30]. Se continuiamo a soffermare la nostra attenzione sui vinti e sugli sconfitti, ci rendiamo agevolmente conto che le icone dentro cui sono liofilizzati non sono altro che la materializzazione simbolica dell’estraneità al mondo. La sconfitta e la sottomissione devono comportare lo smarrimento delle vie del mondo che è loro restituito soltanto in forma estraneante, come perdita irreparabile. A questa perdita non possono e non debbono ribellarsi; debbono, anzi, rassegnarsi e abituarsi a essa, accettandola come loro più vera natura.
La forza viva dell’etica della libertà viene qui smorzata sul nascere e sul nascere riconvertita in ripiegamento spossessante. La sospensione dell’etica precipita qui in uno dei suoi più profondi abissi: la condanna del passato vale come sottrazione del mondo presente e messa in cattività del futuro. Essere schiacciati alla condizione di ostaggi significa essere ridotti alla passività verso il mondo e all’attività verso il potere. La perdita del mondo da parte dei vinti e degli sconfitti è compensata, in maniera perversa ma coerente, con un movimento speculare e complementare: la cattura possessiva che di essi fa il potere.
Il rischio di finire ostaggi del potere è quello di vivere come dei morti, come lo straniero di Camus [31]. Ed è proprio dal e nel silenzio del mondo che i vinti e gli sconfitti si ribellano alla condizione di ostaggi. Diventa qui definitivamente chiaro come e perché essi non possano smettere di prendere la parola e di tuffarsi nel mondo, dalle finestre del presente e definitivamente oltre gli impulsi di dominazione. Questo movimento di emancipazione contrassegna la presenza nel mondo come negazione dell’appropriazione del mondo. In ciò è, forse, possibile cogliere il più autentico elemento di nobiltà che trova riposo nella sconfitta. Gli ostaggi si ribellano alla condizione di servitù cui sono inchiodati, ma non per fare prigionieri o vittime: con più coerenza e più limpido trasporto morale, si ricollocano dalla parte della libertà dei dominati.
Non è il corpo a essere marchiato, come accade ancora agli internati del racconto di Kafka Nella colonia penale [32]. Nella pienezza della globalizzazione, quella degli ostaggi è vita marchiata in eterno e lo stigma che ne consegue non è meramente coercitivo; piuttosto, delinea uno spazio reintegrativo inferiorizzante [33]. Come si vede, siamo ben oltre gli spazi simbolici coattivi delle società arcaiche. Vita marchiata significa che l’iscrizione dolorosa dello stigma non conduce alla morte; anzi, la previene, perché è una vita inferiorizzata che l’iscrizione deve portare in giro, fino alla morte. La reintegrazione degli ostaggi come inferiori ricostituisce la forza del potere che fa, così, dalla colpa e dalla punizione una riserva di energia vitale.
Ma non soltanto quella degli ostaggi è vita marchiata. Lo è ancora di più quella delle vittime, sotto la doppia azione concentrica dei colpevoli e del potere. L’iscrizione dolorosa sulla vita delle vittime è stata originariamente incisa dai colpevoli, i quali hanno offeso e mutilato per sempre il loro destino. Su questa iscrizione originaria il potere ordisce la sua tela: conferma le vittime nel ruolo di soggetti lesi e i colpevoli nel posto di ostaggi. L’offensore e l’offeso vengono giocati l’uno contro l’altro: la punizione dei colpevoli vale come catarsi del dolore delle vittime. La guerra, così, continua con i mezzi della pace e della legge. Lo stigma e il dolore si inseguono e susseguono, in un vortice senza fine che stringe in un unico nodo scorsoio il dolore delle vittime e la punizione dei colpevoli. La vita è qui marchiata indiscriminatamente dalle strategie differenziate di riproduzione del potere attraverso i dispositivi del governo del dolore.
Soprattutto per le vittime, nei giorni della vita marchiata il supplizio non è la morte, ma il puro e semplice vivere. Il marchio ricongiunge i colpevoli con le vittime. Ma lo fa, riconfermando ed esaltando gli antagonismi della guerra con gli strumenti della pace: dolore infinito, a un polo; punizione senza fine, all’altro. Pace e guerra continuano a marchiare la vita, governandone autoritativamente i corsi e ricorsi. Non appare, quindi, strano che i dispostivi di potere della pace si sentano particolarmente legittimati ad applicarsi contro i vinti e gli sconfitti, trasformandoli in ostaggi. Col che è il dolore stesso delle vittime ad essere eternizzato. Le fratture della guerra sono confermate e sedimentate dalla pace a livelli più profondi ed estesi.
Il dolore delle vittime è azionato come una delle cause primarie dell’irriflessività del potere che, così, non ha bisogno di ripensarsi e di responsabilizzarsi, per il passato, il presente e il futuro. Anzi, il potere fa delle lacrime delle vittime una delle fonti strumentali dei suoi apparati legislativi belligeranti. Il cinismo del potere non esita ad alimentarsi del pianto delle vittime, pur di conservarsi e riprodursi su scala allargata. L’ombra delle icone del dopoguerra è molto più fitta e inquietante di quella delle icone della guerra.
La vita marchiata trasforma le vittime, da innocenti, in colpevoli. E colpevoli dell’indefinito e indefinibile reato di esistere. Un reato che nessuna legge può scrivere e che, tuttavia, vale come un monito severo che si distende tra l’assoluta indifferenza e le strumentalizzazioni più bieche. Con ciò si disonorano i morti, caduti per mano dei colpevoli. Non vàè più dignità , né per i vivi e né per i morti. L’azione di questo meccanismo perverso ci fa ben comprendere come la solitudine delle vittime (del terrorismo, in primis) si prolunghi dalla guerra al dopoguerra, contribuendo e rendere ancora più letale il composto indissociabile pace/guerra. Le vittime, ieri come oggi, sono lasciate sole e, ieri come oggi, poste in faccia ai loro carnefici. L’esistenza di questi ultimi, ieri come oggi, è resa necessaria, per acutizzare il dolore delle vittime e trasformarlo in sorgente di odio. Proprio sul dolore e sull’odio si basa la contro-etica del potere, quanto più esso si globalizza.
Ripercorrere i sentieri delle vittime, dal cuore della loro vita marchiata, non è un mero esercizio pedagogico; così come rivisitare la nobiltà della sconfitta non è un test di romanticismo etico. Riannodare i fili del dolore e delle rotture significa spiccare un salto fuori dalla vita marchiata: al di là della solitudine e al di là dello stigma, oltre il filo spinato degli orrori. La riproduzione infinita del dolore è riproduzione irrisolta del lutto, nel cui fuoco bruciano, così, risentimenti che non si riesce e non si vuole estirpare e nemmeno lenire. I mali del passato sono trasferiti nel presente e qui resi più intensi e nuovi, per essere replicati all’infinito.
Le figure a cui è marchiata la vita non abitano i margini della società , ne popolano, piuttosto, gli snodi gravitazionali. Uno dei centri delle strategie del potere, del resto, è il governo del dolore. Qui, in forza di un coerente paradosso, il dolore non esclude, bensì include in posizione di inferiorità sociale, culturale ed etica. La disseminazione dei processi di inferiorizzazione è ora uno dei baricentri della dismisura del potere. Intorno a questo nodo si stringe il rapporto di cooperazione attiva tra norma ed eccezione. Discopriamo qui la sostanza letale dello stato d’eccezione che, secondo un doppio movimento inferiorizzante, esclude per includere e include per escludere. L’inferiorizzazione è l’ordigno eccezionale che scandisce i tempi del ‘politicoà e, insieme, lo normalizza secondo procedure speciali.
Vittime, vinti e sconfitti sono soltanto alcune delle figure inferiorizzate dallo statuto eccezionale che ora norma il ‘politicoà. La dominazione si esprime e giustifica come inferiorizzazione: non si tratta più di stabilire l’arcaicità di culture altre, per ridurle allo stato di minorità , attraverso guerre di conquista; più esattamente, si deve ora accoglierle come inferiori nei dispositivi di potere, per alimentarsene, replicandone la disfatta all’infinito, attraverso la pace che continua la guerra in funzione della vittoria. La vita è marchiata non nella prospettiva della morte, ma di un dolore inestinguibile, eterno quanto eterne possono qui essere l’esistenza e la sofferenza umane.
La vita marchiata è un tremendo simbolo di potere, quanto più l’apertura del Sé all’Altro è coattivamente capovolta in chiusura al mondo; quanto più l’esperienza della morte è diluita in una quotidianità spoglia di slancio etico. La morte diventa irrappresentabile, proprio perché la vita è offesa e umiliata. L’estrema solitudine del morente è anticipata e quotidianizzata dall’estrema solitudine della vittima e del colpevole. Il potere ha ora un pieno controllo sul vivente e sul morente, tanto che vita e morte diventano difficilmente rappresentabili, se non si riesce a sfuggire all’esizialità di questa spirale.
All’interno dei giochi di potere si è sempre tutti colpevoli, anche (o soprattutto) quando si è innocenti. La colpa attribuita all’innocenza rende impossibile il vivere e il morire nella piena dignità , come avviene nel Processo di Kafka [34]. Andando più al fondo, vita marchiata e colpa degli innocenti costituiscono due delle condizioni che più crudamente ci parlano dello scacco dell’etica contemporanea, ben al di là delle pressioni castranti esercitate dalla storia e dalla politica [35].
Il marchio ora inciso sulla vita non è impresso con mezzi fisici, bensì da ordigni metagiuridici che fanno particolare ricorso agli strumenti del comunicare che, ben lungi dall’avvicinarle, distanziano tra di loro parole, soggettualità e persone [36]. E sono i cristalli di questa distanza a predisporre la via di uscita definitiva dalla profondità e nobiltà della vita umana. Si è, così, eteroguidati verso l’ingresso nei mondi sfavillanti della menzogna comunicativa, dentro i quali il potere condanna a permanere. La comunicazione, in realtà , non inaugura il superamento euforico dell’alienazione; bensì ne segna l’approdo ipercomplessificato. Si afferma il dominio della simulazione, entro cui l’evacuazione estetizzante della vita è pilotata da strategie di potere che governano il dolore, anestetizzandolo. Alla vita ridotta a voce silente corrisponde un dolore afono. Il silenzio del dolore è il caleidoscopio narrativo che dovrebbe domare la resistenza e celebrare l’apoteosi del potere.
Il dolore dell’Altro è qui la fonte essenziale e inesauribile del potere. Allora, non lo sterminio massmediatico [37], ma il dolore silente dell’Altro è il delitto perfetto perpetrato dal potere comunicativo. Sterminare l’alterità equivale a prosciugare le principali fonti di potere (gli “strumenti del comunicare”) che, invece, si rianimano proprio succhiando all’alterità la sua infinita energia vitale, per farne un uso malevolo, attraverso fantasmagorie reprimenti e deprimenti. Soprattutto nell’epoca globalizzata, il potere cura le proprie metastasi, iniettandosi dosi crescenti di alterità , spogliandole della loro carica creativa e inibendo – da questo livello di profondità – la possibilità della metamorfosi.
I dominanti si annettono qui il potere di sovversione dell’alterità , per rigenerarsi e rigenerare la loro signoria sul mondo. La trasformazione del potere di sovversione in potere di conservazione è la strategia sublime dei dominanti della nostra epoca, i cui primi pallidi segnali sono stati lanciati, negli anni Ottanta, dalla “controrivoluzione reaganiana”. L’umanità è stata fatta scorrere fino all’orlo della catastrofe permanente, la quale ha saturato i dispositivi di controllo di una neobarbarie sempre più sofisticata e rarefatta in termini di enunciati formali e sempre più immiserita e opprimente in termini di realtà . Al punto che il principio realtà è predato, circonfuso e riallocato dal principio virtualità , il quale esibisce realisticamente il dolore come lo spettacolo supremo. E quanto più è sovvertita la carica liberatoria del dolore, tanto più la vita è marchiata, secondo linee di progressiva generalizzazione.
Non si tratta di riconquistare il mondo umano perduto; ma di riacquistare l’umanità che nel mondo perduto è stata esiliata. Per questo, occorre partire dalla vita marchiata, diventata il luogo/logo della neobarbarie. Occorre ridare voce al dolore, esplorandone tutta la dignità sovversiva: strapparlo agli ingranaggi metacomunicativi del potere. La resistenza del dolore può rompere gli schemi di asservimento dei linguaggi al discorso, della parola alla chiacchiera, della vita alla simulazione. Vi riesce se, a sua volta, non si lascia catturare e predare dalle macchine metacomunicative che padroneggiano la realtà .
Si apre, allora, uno spazio che a priori è indecidibile. E che, per questo motivo, più che uno spazio politico, è uno spazio poetico, se con poesia intendiamo la restituzione alla vita della sua parola. Che la vita parli di sé – e non la poesia parli della vita – è la sfida politica estrema, di cui i poeti stessi non sempre sono consapevoli. In questo senso, come ben sapeva Alda Merini [38], diventa ancora più vero che: solo la poesia può salvarci. L’etica poetica e la poetica dell’etica si decentrano rispetto alla catastrofe morale che ha segnato a lutto il nostro tempo. Si rituffano nel magma della vita, di cui inseguono la via, la musica, le immagini, le parole e i silenzi. Ogni svolta puramente etica, del resto, soccombe sotto il titanismo dell’amoralismo diffuso che tiranneggia la società civile e fa del sovrano globale il signore del tempo: finisce invariabilmente nelle fauci di quello che plasticamente Baudrillard ha definito nuovo ordine vittimale.
La vittimizzazione manda in cancrena le ferite. Cominciando con quelle delle vittime. Occorre aprire un varco nel suo tempo lineare e nella giustizia algida che le corrisponde. Sono necessari linguaggi che sappiano attraversare il dolore, restituendogli la vita vibrante che in esso è celata e ammutolita. Niente più della poesia che dà parola alla vita buca la pienezza compatta dei discorsi vittimali e l’astuzia delle simulazioni comunicative. L’etica poetante riparte dalla vita messa in lutto dal marchio e la rende un principio attivo: un inizio e, insieme, un ritorno. La lingua poetica scampa al suo naufragio, nel punto preciso in cui aggira la barriera dell’esilio entro cui era stata confinata.
Solo la poesia può salvarci, perché solo la poesia non arretra davanti al dolore e non tace davanti al silenzio, cercandone le voci, non già il senso. Vivere senza poesia è, forse, possibile; ma non è possibile vivere senza la voce poetica del dolore e del silenzio. Solo la poesia può salvarci, perché – come diceva Alda Merini – solo la poesia (quella degna di questo nome) non sta mai dalla parte dei forti. Dalla parte delle vittime, dunque. Dalla parte dei vinti e degli sconfitti, dunque. Dalla parte dei dominati, dunque. Ed è in questa sua impolicità estrema che la poesia è supremamente politica. Cioè: dalla parte della felicità . Cioè: contraria a tutte le prese di partito.
Le lotte di resistenza che si muniscono di linguaggi poetici a favore della felicità sono quelle che più e meglio possono sperare di inceppare i dispositivi di controllo del potere e ambire a fuoriuscire dai cicli di reversibilità dei conflitti sociali. La resistenza che perfora il cerchio dell’eterno ritorno del potere si incammina sulla strada del superamento di se stessa: rompe la linearità storica e immette elementi discontinui. Si intesse da qui il filo di speranza del cammino di una vera salvezza. E a salvarsi iniziano le vittime, i vinti, gli sconfitti e via via tutti i dominati. Ed è così che può vacillare l’ordine vittimale e con esso tutte le sue icone, sia quelle della guerra, sia quelle del dopoguerra.
(agosto 2010)
Note
[1] Sul legame di coappartenenza tra pace e guerra, sia permesso rinviare ad A. Chiocchi, Simbolica e globalizzazione. Stratificazioni concettuali e ossessioni dello spazio globale, Avellino, Associazione culturale Relazioni, 2005.
[2] Cfr. Ingeborg Bachmann, Il caso Franza, Milano, Adelphi, 1988.
[3] Cfr. F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, Torino, Einaudi, 2005.
[4] Di F. Dostoevskij, sul tema, si veda soprattutto: Delitto e castigo, Milano, Mondadori, 2005; I fratelli Karamazov, Torino, Einaudi, 2005; I dèmoni, Milano, Feltrinelli, 2009;L’Idiota, Milano, Garzanti, 2008.
[5] Cfr. F. Dostoevskij, Diario di uno scrittore, Milano, Bompiani, 2007.
[6] Cfr. F. Dostoevskij, Memorie dalla casa dei morti, Roma, Newton Compton, 1995.
[7] Il discorso di potere come generatore di colpa è, come noto, uno dei temi della lezione inaugurale di Roland Barthes al corso di semiologia letteraria, tenuta il 7 gennaio del 1977 al Collège de France: cfr. M. Dotti, Frammenti di un discorso sedizioso, “il manifesto”, 26/03/2010. Quello del discorso di potere è un tema squisitamente foucaultiano, come si accennerà più avanti.
[8] Per un più approfondito discorso su queste problematiche, sia consentito rinviare ad A. Chiocchi, Dismisure. Poteri, conflitto, globalizzazione, Avellino, Associazione culturale Relazioni, 2002; Id., L’Altro e il dono. Del vivente e del morente, Avellino, Associazione culturale Relazioni, 2010.
[9] Cfr., soprattutto, Memorie dalla casa dei morti, cit.
[10] Cfr., soprattutto, Delitto e castigo, cit.; I fratelli Karamazov, cit.; L’Idiota, cit.; Memorie dalla casa dei morti, cit.
[11] Cfr., soprattutto, Delitto e castigo, cit.; I fratelli Karamazov, cit.; I dèmoni, cit.
[12] Il tema è più propriamente affrontato in A. Chiocchi, Carcere, giustizia e dono, “Dignitas”, n. 7, 2005.
[13] Di M. Foucault, sul punto, sono particolarmente rilevanti: L’ordine del discorso, Torino, Einaudi, 1972; La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault II, Milano, Feltrinelli, 1997. Tra le due opere, tuttavia, non mancano scostamenti e attriti; ma ciò rende l’analisi di Foucault ancora più interessante e penetrante.
[14] Cfr., sul punto, Microfisica del potere, Torino, 1977; Bisogna difendere la società , Milano, Feltrinelli, 1998. Per una puntuale disamina della critica foucaultiana alla polemologia di Clausewitz, cfr. M. Guareschi, Ribaltare Clausewitz. La guerra in Michel Foucault e Deleuze-Guattari, “Conflitti globali”, n. 1, 2003.
[15] «Mi si dirà che non si può, di primo acchito, confondere rapporti di forza e relazione di guerra. È vero. Ma io assumerò questo dato solo come un caso estremo, nella misura in cui la guerra può essere considerata come il punto di massima tensione, ovvero come manifestazione dei rapporti di forza allo stato puro» (Bisogna difendere la società , cit., p. 102). Più esattamente ancora: «Dietro l’ordine calmo delle subordinazioni, dietro lo Stato, dietro gli apparati dello stato, dietro le leggi, non è forse possibile avvertire e riscoprire una sorta di guerra primitiva e permanente?» (Ibidem, p. 46). Con un ulteriore ed esplicito riferimento a Clausewitz: «Se è vero che il potere politico arresta la guerra, fa regnare o tenta di far regnare una pace nella società civile, non è affatto per sospendere gli effetti della guerra o per neutralizzare lo squilibrio che si è manifestato nella battaglia finale della guerra. potere politico, in questa ipotesi, ha infatti il ruolo di reinscrivere perpetuamente, attraverso una specie di guerra silenziosa, il rapporto di forze nelle istituzioni, nelle disuguaglianze economiche, nel linguaggio, fin nei corpi degli uni e degli altri. (…) Definire la politica come guerra continuata con altri mezzi significa che la politica è la sanzione e il mantenimento del disequilibrio delle forze manifestatosi nella guerra» (Ibidem, p. 23). Infine, con un nuovo richiamo al generale prussiano: «il capovolgimento della frase di Clausewitz vuol dire anche che, all’interno della “pace civile” ovvero in un sistema politico, le lotte politiche, gli scontri a proposito del potere, col potere, per il potere, le modificazioni dei rapporti di forza (con i relativi consolidamenti, rovesciamenti ecc.), non dovrebbero essere interpretati che come la prosecuzione della guerra. Andrebbero cioè decifrati come episodi, frammentazioni, spostamenti della guerra stessa. E in questo modo – quand’anche si scrivesse la storia della pace e delle sue istituzioni – non si scriverebbe mai nient’altro che la storia della guerra» (Ibidem, p. 23).
[16] Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società , cit., p. 29 e pp. 88-89; Id., La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 82-83.
[17] Cfr. M. Foucault, Poteri e strategie, “aut aut”, n. 164/1978, p. 28.
[18] «Bisogna anche dire, infine, che non si possono concepire le relazioni di potere come se si trattasse di una sorta di dominio brutale che assume la forma del “fai questo altrimenti ti uccido!”. Queste, per il potere, sono solo situazioni estreme. Di fatto, le relazioni di potere consistono in rapporti di forza, in affrontamenti, e sono pertanto sempre reversibili. Non esistono rapporti di potere che risultino del tutto trionfanti, senza residui, e il cui dominio sia pertanto insormontabile» [M. Foucault, Potere e sapere, in Il discorso, la storia, la verità . Interventi 1969-1984 ( a cura di M. Bertani), Torino, Einaudi, 2001, p. 202].
[19] Si rinvia, sul punto, all’Intervista ad Antonello Petrillo, I diritti umani: ovvero il discorso della guerra e i racconti della resistenza, in questo stesso numero della rivista.
[20] Per una più diffusa trattazione del tema, sia consentito rinviare ad A. Chiocchi, Attraversamenti. Mondi della vita e vite del mondo, Mercogliano (Av), Associazione culturale Relazioni, 1996.
[21] Per gli asserti teorici e politici di questo paradigma, sia concesso rinviare ad A. Chiocchi, L’etica tra pace e guerra, “Società e conflitto”, n. 27/28, 2003.
[22] Cfr., sul punto, AA.VV., Rapporto sui diritti globali 2009 (a cura di S. Segio), Roma, Ediesse, 2009; segnatamente, il cap. 3.8: “Saperi e culture”.
[23] Sul tema, cfr. AA.VV., Rapporto sui diritti globali 2010 (a cura di S. Segio), Roma, Ediesse, 2010; segnatamente, il cap. 5: “I nuovi diritti umani”; si rinvia, del pari, ad A. Petrillo, I diritti umani: ovvero il discorso della guerra e i racconti della resistenza, cit. Originariamente, l’intervista è comparsa nel Rapporto sui diritti globali 2010, cit., pp. 1050-1059; successivamente, è stata pubblicata sulla rivista.
[24] Per la discussione dell’argomento, si rinvia ad A. Chiocchi, La guerra come regolatore universale, “Società e conflitto”, n. 27/28, 2003.
[25] Sull’argomento, sia concesso rinviare ad A. Chiocchi, Dismisure. Poteri, conflitto e globalizzazione, cit.
[26] Per una acuta critica della comunicazione quale affossatrice della verità , cfr. M. Perniola, Contro la comunicazione, Torino, Einaudi, 2004. Sulle verità menzognere, invece, sia consentito rinviare ad A. Chiocchi, Luce sepolta. La città vivente, “Società e conflitto”, n. 39/40, 2009.
[27] Il libro a cui si riferisce la Yourcenar è: I. Morris, La nobiltà della sconfitta, Milano, Guanda, 1983. Le sue considerazioni si trovano nell’articolo La nobiltà della sconfitta, presente in Il Tempo, grande scultore, Torino, Einaudi, 1985.
[28] M. Yourcenar, op. cit., rispettivamente p. 67 e p. 69.
[29] Ibidem, p. 74.
[30] «Si può pensare solo per immagini. Se vuoi fare il filosofo, scrivi un romanzo» (A. Camus, Taccuini, Milano, Bompiani, 2004, Libro I, p. 14).
[31] Cfr. A. Camus, Lo straniero, Milano, Bompiani, 2008.
[32] Cfr. F. Kafka, Nella colonia penale, in Tutti i racconti, vol. II, Milano, Mondadori, 1970. Per una densa disamina del posto occupato dal corpo nella storia della civiltà occidentale, cfr. U. Galimberti, Il corpo, Milano, Feltrinelli, 1987.
[33] Per un’analisi degli spazi simbolici della globalizzazione, si rinvia ad A. Chiocchi, Simbolica e globalizzazione, cit.
[34] Cfr. F. Kafka, Il processo, Rimini, Guaraldi, 1995.
[35] Sulla “catastrofe” dell’etica contemporanea, cfr. A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Milano, Feltrinelli, 1988.
[36] Si rinvia alla esauriente critica di M. Perniola, Contro la comunicazione, cit. Qui, come si vede, siamo in una posizione polare rispetto all’utopia dell’estasi comunicativa formulata da M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 2008. Sugli effetti distanzianti e, insieme, implodenti della comunicazione ha, per primo, insistito J. Baudrillard: La trasparenza del male. Saggio sui fenomeni estremi, Milano, SugarCo, 1990; Parole chiave, Roma, Armando, 2002.
[37] Cfr. J. Baudrillard, Il delitto perfetto, Milano, Cortina, 1996. Nella posizione di Baudrillard, a dire il vero, non manca una lettura dell’azione vampirizzante esercitata dal potere nei confronti dell’alterità . Ecco, p. es., come si esprime in un articolo (Nessuna pietà per Serajevo) comparso su “Liberation” il 6 gennaio 1994: «Sono loro che sono forti, siamo noi che siamo deboli, e che andiamo a cercare laggiù qualcosa con cui rigenerare la nostra debolezza e la nostra perdita di realtà . … Tutti questi “corridoi” che apriamo per spedire loro i nostri viveri e la nostra “cultura” sono in realtà corridoi di miseria, attraverso cui importiamo le loro forze vive e l’energia della loro sventura. Scambio ancora una volta ineguale. Essi trovano nella disillusione radicale del reale e dei nostri princìpi politici una specie di secondo coraggio, quello di sopravvivere a quanto non ha senso – noi ci mettiamo a convincerli della “realtà ” della loro sofferenza, rendendola culturale, certamente teatralizzandola perché essa possa fungere da riferimento al teatro dei valori occidentali, di cui la solidarietà fa parte» (Il delitto perfetto, cit., pp. 137, 138). Ed è qui che il giudizio di Baudrillard sull’umanitarismo occidentale diventa particolarmente sferzante, non esitando a definirlo «la vittimalità ben assortita dei Diritti dell’uomo come unica ideologia funebre» (Ibidem, p. 139). Ancora più precisamente, in un altro importante testo: «Interi popoli si precipitano verso un obbiettivo “storico” di libertà che non esiste più nella forma da loro sognata, verso una forma di rappresentazione “democratica” che agonizza anchàessa da tempo sotto la speculazione (quella statistica, dei sondaggi, quella mediatica e dell’informazione). L’illusione democratica è universale, legata al grado zero dell’energia civile. Della libertà resta solo l’illusione pubblicitaria cioè il grado zero dell’Idea, ed è questa illusione che regola il nostro regime liberale dei Diritti dell’uomo» (L’illusione della fine o lo sciopero degli eventi, Milano, Anabasi, 1993, pp. 53-54). Pregnantemente, in proposito, egli parla di “Nuovo Ordine Vittimale” (Il delitto perfetto, cit, pp. 135 ss.). Ed ecco anche delineate le linee di scorrimento di questo nuovo ordine: «Oggi occorre denunciare lo sfruttamento morale e sentimentale di esso [“dell’altro mondo”] – il cannibalismo caritativo è in fondo peggiore della violenza oppressiva. Estrazione e riciclaggio umanitario della miseria – l’equivalente dei giacimenti di petrolio e delle miniere d’oro. Estorsione dello spettacolo della miseria e contemporaneamente della nostra condiscendenza caritatevole: plusvalore mondiale di buoni sentimenti e di cattiva coscienza» (L’illusione della fine, cit., p. 93).
[38] Per una lettura della poesia di Alda Merini procedente in questa direzione, sia concesso rinviare ad A. Chiocchi, Di alcuni passaggi in Alda Merini, in questo stesso numero della rivista.
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