Ascanio Celestini, viaggio ai confini

Manicomio, scuola, famiglia, chiesa, supermercato… Le istituzioni «totali» e alienanti nel film d’esordio in concorso alla Mostra di Venezia, «La pecora nera». L’attore-regista interviene sui tagli alla cultura e sulle difficoltà  crescenti in Italia per gli artisti e le produzioni indipendenti a teatro e al cinema

Manicomio, scuola, famiglia, chiesa, supermercato… Le istituzioni «totali» e alienanti nel film d’esordio in concorso alla Mostra di Venezia, «La pecora nera». L’attore-regista interviene sui tagli alla cultura e sulle difficoltà  crescenti in Italia per gli artisti e le produzioni indipendenti a teatro e al cinema

Ascanio Celestini per la prima volta dietro la macchina da presa. La pecora nera, uno dei film più attesi del concorso alla Mostra di Venezia, è l’adattamento cinematografico del libro omonimo che trae spunto da un suo spettacolo teatrale, diario di un viaggio nell’antipsichiatria italiana. Molto del suo teatro è passato sulle pagine scritte, Radio Clandestina, Scemo di guerra, 4 giugno 1944, Elogio funebre del manicomio elettrico… Ed ora La pecora nera arriva sul grande schermo in un percorso di incontri negli ex manicomi e non solo. Celestini, anche protagonista del film insieme a Maya Sansa e Giorgio Tirabassi, racconta le altre istituzioni imparentate con i manicomi: la scuola, la chiesa, la famiglia e il supermercato. Luoghi alienanti e che imprigionano.
L’attore, regista e scrittore interviene qui sulla questione dei finanziamenti pubblici negati alla cultura, sulla quale in questi giorni abbiamo interpellato i protagonisti della scena italiana.
Cosa accadrà con i tagli alla cultura?
Qualcuno nel governo ha detto che senza finanziamenti alla cultura gli artisti sono più liberi. È come dire che senza gli ospedali i malati potranno tornare a curarsi coi bei vecchi rimedi delle nonne o con la famosa mela al giorno che toglie il medico di torno.
Che tipo di società può diventare l’Italia senza aiuti dello stato alla cultura?
Non credo che i governi di questi ultimi anni abbiano pensato poco alla cultura. Penso piuttosto che, come accade per la ricerca scientifica, hanno bisogno solo di una produzione culturale che abbia un immediato riscontro. Non è una filosofia che riguarda solo il potere politico, ma anche le produzioni private. Ai politici serve il consenso, ai privati il denaro. E non tocca solo la cultura. Con l’acqua piuttosto che con i trasporti pubblici, a Pomigliano come sullo stretto di Messina accade la stessa cosa.
Come è cambiato l’ambiente del teatro?
Fare teatro in Italia significa vivere in tournée. Imboccare la Firenze-mare a mezzogiorno e farsi i calcoli per arrivare in tempo per il «tris di primi» all’autogrill Cantagallo o in alternativa alla trattoria la Lanterna a Pian del Voglio per un piatto di tagliatelle coi funghi. Significa abituarsi alle scalette del piccolo teatro di Bevagna e allo scarico della Corte di Genova dove puoi entrare sul palco con la macchina. Significa parlare al pubblico del teatro di Piangipane abituato ad accompagnare lo spettacolo con i cappelletti fatti a mano e a quello che ti porta i cioccolatini col bigliettino e i ringraziamenti dandoti del «lei». Tutto questo per dire che il teatro è un arcipelago di baracconi sempre in viaggio. E in questo viaggio il teatro subisce la stessa crisi che subisce il resto del paese. È un viaggio che da qualche anno sta rallentando. Un viaggio in salita e contro vento.
La pecora nera è stato rappresentato anche in Francia. Che differenze hai notato nell’ambiente teatrale e culturale francese rispetto a quello italiano?
Il teatro Rideau di Bruxelles ha messo in scena tre miei testi dal 2005, mentre in Francia Fabbrica e Radio clandestina sono produzioni di quest’anno. All’estero i giornalisti sono molto curiosi rispetto al nostro modo di lavorare. Non capiscono come sia possibile che una parte imponente degli spettacoli, che vengono prodotti dalle grandi istituzioni teatrali italiane, risultino così poco interessanti ai loro occhi. In Francia, dove il direttore del Théâtre de la Ville (dove la versione francese di Fabbrica è stata ospitata nel gennaio scorso) ha 38 anni, ma anche Olivier Py che dirige l’Odeon ne ha pochi più di 40. Da noi il potere ha sempre l’età del papa o del presidente del consiglio. Negli incontri in Francia e in Belgio, ho cercato di spiegare che in Italia è molto complicato produrre uno spettacolo, che il sistema teatrale è profondamente bloccato, che molto denaro è concentrato in poche mani, che un sistema consolidato di scambi è il tessuto su cui si muove buona parte del teatro istituzionale, che l’ente teatrale italiano è stato considerato «ente inutile» da questo ultimo governo.
Non che tutto ciò che accade all’estero sia sempre meglio di ciò che ci troviamo a vivere noi, ma l’Italia è culturalmente ancora un’espressione geografica. Il meglio del teatro si trova nei piccoli centri, è autonomo rispetto alle istituzioni che devono rendicontare al ministero ogni virgola e finiscono per produrre spettacoli noiosi e costosi. In un certo senso è un pregio perché stare sotto l’ala protettiva delle istituzioni può essere una gabbia, ma restarne fuori può diventare un deserto.
Quali sono le difficoltà per un attore in Italia?
Il teatrante vive una condizione di precarietà, ma in questi ultimi anni più che precario è spaesato. Un giovane che cerca una formazione si trova a dover correre da un seminario all’altro, da un provino a Milano a uno a Roma, cercando di entrare in qualche scuola e dopo qualche anno di lavoro quotidiano si sente di dover ricominciare daccapo coi provini.
Molti mollano, altri trovano posto nelle fiction, qualcuno che riesce a fare teatro e magari a mettere su una compagnia che prende persino un finanziamento, rischia di arroccarsi e diventare un ragioniere a furia di fare bandi regionali e compilare moduli per tenersi stretta una convenzione. Poi ci sono quelli che tengono duro e fanno spettacoli coraggiosi, quelli che hanno un teatro nella testa e lo vogliono comunicare. C’è Giuliana Musso che è ignorata, ma porta in scena uno spettacolo come Tanti saluti, bello e commovente, scritto col cuore nella testa.
Essere attore e regista può essere una soluzione per riuscire a sopravvivere?
Non è una scelta produttiva. Non dipende da questioni economiche. Io non mi sento attore e regista. Cioè non sento che le due cose siano distinte. Cent’anni fa nel nostro paese non esisteva la figura del regista teatrale eppure già esisteva il teatro moderno da quattro secoli.
Gabrielle Lucantonio
Ascanio Celestini per la prima volta dietro la macchina da presa. La pecora nera, uno dei film più attesi del concorso alla Mostra di Venezia, è l’adattamento cinematografico del libro omonimo che trae spunto da un suo spettacolo teatrale, diario di un viaggio nell’antipsichiatria italiana. Molto del suo teatro è passato sulle pagine scritte, Radio Clandestina, Scemo di guerra, 4 giugno 1944, Elogio funebre del manicomio elettrico… Ed ora La pecora nera arriva sul grande schermo in un percorso di incontri negli ex manicomi e non solo. Celestini, anche protagonista del film insieme a Maya Sansa e Giorgio Tirabassi, racconta le altre istituzioni imparentate con i manicomi: la scuola, la chiesa, la famiglia e il supermercato. Luoghi alienanti e che imprigionano.
L’attore, regista e scrittore interviene qui sulla questione dei finanziamenti pubblici negati alla cultura, sulla quale in questi giorni abbiamo interpellato i protagonisti della scena italiana.
Cosa accadrà con i tagli alla cultura?
Qualcuno nel governo ha detto che senza finanziamenti alla cultura gli artisti sono più liberi. È come dire che senza gli ospedali i malati potranno tornare a curarsi coi bei vecchi rimedi delle nonne o con la famosa mela al giorno che toglie il medico di torno.
Che tipo di società può diventare l’Italia senza aiuti dello stato alla cultura?
Non credo che i governi di questi ultimi anni abbiano pensato poco alla cultura. Penso piuttosto che, come accade per la ricerca scientifica, hanno bisogno solo di una produzione culturale che abbia un immediato riscontro. Non è una filosofia che riguarda solo il potere politico, ma anche le produzioni private. Ai politici serve il consenso, ai privati il denaro. E non tocca solo la cultura. Con l’acqua piuttosto che con i trasporti pubblici, a Pomigliano come sullo stretto di Messina accade la stessa cosa.
Come è cambiato l’ambiente del teatro?
Fare teatro in Italia significa vivere in tournée. Imboccare la Firenze-mare a mezzogiorno e farsi i calcoli per arrivare in tempo per il «tris di primi» all’autogrill Cantagallo o in alternativa alla trattoria la Lanterna a Pian del Voglio per un piatto di tagliatelle coi funghi. Significa abituarsi alle scalette del piccolo teatro di Bevagna e allo scarico della Corte di Genova dove puoi entrare sul palco con la macchina. Significa parlare al pubblico del teatro di Piangipane abituato ad accompagnare lo spettacolo con i cappelletti fatti a mano e a quello che ti porta i cioccolatini col bigliettino e i ringraziamenti dandoti del «lei». Tutto questo per dire che il teatro è un arcipelago di baracconi sempre in viaggio. E in questo viaggio il teatro subisce la stessa crisi che subisce il resto del paese. È un viaggio che da qualche anno sta rallentando. Un viaggio in salita e contro vento.
La pecora nera è stato rappresentato anche in Francia. Che differenze hai notato nell’ambiente teatrale e culturale francese rispetto a quello italiano?
Il teatro Rideau di Bruxelles ha messo in scena tre miei testi dal 2005, mentre in Francia Fabbrica e Radio clandestina sono produzioni di quest’anno. All’estero i giornalisti sono molto curiosi rispetto al nostro modo di lavorare. Non capiscono come sia possibile che una parte imponente degli spettacoli, che vengono prodotti dalle grandi istituzioni teatrali italiane, risultino così poco interessanti ai loro occhi. In Francia, dove il direttore del Théâtre de la Ville (dove la versione francese di Fabbrica è stata ospitata nel gennaio scorso) ha 38 anni, ma anche Olivier Py che dirige l’Odeon ne ha pochi più di 40. Da noi il potere ha sempre l’età del papa o del presidente del consiglio. Negli incontri in Francia e in Belgio, ho cercato di spiegare che in Italia è molto complicato produrre uno spettacolo, che il sistema teatrale è profondamente bloccato, che molto denaro è concentrato in poche mani, che un sistema consolidato di scambi è il tessuto su cui si muove buona parte del teatro istituzionale, che l’ente teatrale italiano è stato considerato «ente inutile» da questo ultimo governo.
Non che tutto ciò che accade all’estero sia sempre meglio di ciò che ci troviamo a vivere noi, ma l’Italia è culturalmente ancora un’espressione geografica. Il meglio del teatro si trova nei piccoli centri, è autonomo rispetto alle istituzioni che devono rendicontare al ministero ogni virgola e finiscono per produrre spettacoli noiosi e costosi. In un certo senso è un pregio perché stare sotto l’ala protettiva delle istituzioni può essere una gabbia, ma restarne fuori può diventare un deserto.
Quali sono le difficoltà per un attore in Italia?
Il teatrante vive una condizione di precarietà, ma in questi ultimi anni più che precario è spaesato. Un giovane che cerca una formazione si trova a dover correre da un seminario all’altro, da un provino a Milano a uno a Roma, cercando di entrare in qualche scuola e dopo qualche anno di lavoro quotidiano si sente di dover ricominciare daccapo coi provini.
Molti mollano, altri trovano posto nelle fiction, qualcuno che riesce a fare teatro e magari a mettere su una compagnia che prende persino un finanziamento, rischia di arroccarsi e diventare un ragioniere a furia di fare bandi regionali e compilare moduli per tenersi stretta una convenzione. Poi ci sono quelli che tengono duro e fanno spettacoli coraggiosi, quelli che hanno un teatro nella testa e lo vogliono comunicare. C’è Giuliana Musso che è ignorata, ma porta in scena uno spettacolo come Tanti saluti, bello e commovente, scritto col cuore nella testa.
Essere attore e regista può essere una soluzione per riuscire a sopravvivere?
Non è una scelta produttiva. Non dipende da questioni economiche. Io non mi sento attore e regista. Cioè non sento che le due cose siano distinte. Cent’anni fa nel nostro paese non esisteva la figura del regista teatrale eppure già esisteva il teatro moderno da quattro secoli.

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