L’orrore del lager staliniano nel libro dell’autore condannato per aver diffuso il testamento di Lenin e per attività contro rivoluzionaria
“La tortura fa diventare l’uomo un personaggio del mondo irreale contro il quale si era battuto e una pedina del gioco”
“I sentimenti, l’amore, l’amicizia, la carità , la gloria, abbandonano i prigionieri durante il digiuno”
L’orrore del lager staliniano nel libro dell’autore condannato per aver diffuso il testamento di Lenin e per attività contro rivoluzionaria
“La tortura fa diventare l’uomo un personaggio del mondo irreale contro il quale si era battuto e una pedina del gioco”
“I sentimenti, l’amore, l’amicizia, la carità , la gloria, abbandonano i prigionieri durante il digiuno”
Nel gennaio 1937 Varlam Šalamov venne arrestato per “attività controrivoluzionaria trockista”, e condannato a cinque anni di reclusione: qualche tempo dopo, la condanna fu elevata a quindici anni. Nell´agosto venne trasferito nell´estremo Nord-Est dell´Unione Sovietica – la Kolyma, una regione grande otto volte l´Italia. Non era la prima volta che Šalamov conosceva gli orrori dei campi di lavoro sovietici. Già nel 1929 era stato condannato a tre anni, perché aveva diffuso il testamento di Lenin; e rinchiuso nel lager di Višera, negli Urali del Nord. (Višera. Antiromanzo, Adelphi, traduzione di Claudia Zanghetti, con una bella prefazione di Roberto Saviano, pagg. 238, euro 18). Ma quando arrivò alla Kolyma, tra centinaia di migliaia di prigionieri, quei primi anni di lager gli parvero una specie di idillio o di vacanza: come il tempo che Dostoevskij aveva trascorso in Siberia e raccontato nelle Memorie di una casa morta.
Quando leggiamo Šalamov, ci rendiamo conto che nessuna forma di immaginazione supera, nell´uomo, quella del male: come se il proibito, l´intentato, il vietato suscitino in noi una fantasia sinistra, che non può mai placarsi e trovare un limite. Per più di trent´anni, nei campi dell´Estremo Nord e in tutta l´Unione Sovietica, l´idea comunista fornisce, a questa immaginazione, una specie di nutrimento: il disprezzo per l´uomo, il desiderio di umiliarlo e calpestarlo sino in fondo all´anima, la meticolosa ossessione e precisione della ferocia quotidiana; tutti gli orrori sono premiati e santificati dall´ideologia. Cosa importa un trockista (un supposto trockista) come Šalamov? Di lui, come dei suoi compagni, si può fare qualsiasi cosa: processarlo, calunniarlo, torturarlo, sfinirlo, ucciderlo.
Durante i processi, l´accusa viene completamente inventata: le prove sono immaginarie; con i nervi a pezzi, il detenuto deve combattere corpo a corpo con visioni fantastiche, inebetito di fronte alla loro suggestione perversa. La tortura non è niente. Non è niente spezzare le costole dell´arrestato, picchiarlo, calpestarlo sotto i tacchi ferrati quando è a terra, frantumargli i denti in bocca o spegnergli le sigarette nel corpo; e nemmeno interrogarlo di continuo e non lasciarlo dormire per diciassette notti di seguito. La tortura fondamentale è sopraffare la volontà del prigioniero con i farmaci e le iniezioni – fino a quando sottoscriva tutto quello che l´inquirente ha inventato. «Da quel momento egli si trasforma in un personaggio del mondo irreale contro il quale si era battuto, e diventa una pedina del gioco spaventoso e oscuro, che viene disputato negli uffici dei giudici istruttori».
Nei lager, tra i lavori disumani e il gelo, le torture vengono moltiplicate. Se il detenuto soffre di scorbuto, gli viene imposto di bere un estratto di aghi di pino, che non ha alcuna efficacia curativa: se non la beve è fucilato; ed è ugualmente fucilato se mastica rose selvatiche, le quali contengono la vitamina C che salva dal male. Nell´inverno del 1938, cinquecento reclusi sono costretti a percorrere cinquecento chilometri a piedi: ne arrivano trenta; gli altri muoiono, congelati, uccisi dalla fame, fucilati. Questa parola, fucilazione, viene coniugata ogni istante. Il detenuto viene fucilato se per la fame e l´estenuazione non riesce a realizzare la quota di lavoro imposta: viene fucilato se si permette la più innocente osservazione su Stalin; viene fucilato se tace, mentre tutti gli altri urlano “hurra!” a Stalin. Come Šalamov, abbiamo l´impressione che l´uomo, nella sua storia, non sia mai stato malvagio come nei lager. L´uomo porta nell´anima un “male originale”: non il peccato biblico, ma qualcosa di molto più tremendo e oscuro, che nessun termine teologico, nessuna immagine, nessuna parola dei nostri linguaggi può definire.
Nei lunghissimi mesi dell´inverno, il sole si mostra così brevemente che non riesce a intravedere la terra attraverso la fitta garza bianca della bruma ghiacciata. Di notte, la temperatura scende fino a cinquantacinque gradi sotto zero, quando gli sputi gelano in volo. I detenuti lavorano per sedici ore, di giorno e di notte, nelle cave dei giacimenti auriferi. C´è lo stesso argano a cavalli che in Egitto fu adoperato nella costruzione delle Piramidi: solo che qui, al posto dei cavalli, vengono aggiogati i prigionieri. Chi dorme – quattro, cinque miserabili ore – si stende in tende di tela incatramate, piene di buchi. La razione alimentare comprende trecento o cinquecento grammi di pane al giorno; e una liquidissima minestra che non nutre. Con tutte le forze dell´immaginazione, i detenuti desiderano il cibo: specialmente il pane: lo leccano fino a farlo scomparire dal palmo della mano, o ne staccano delle briciole minuscole, una dopo l´altra, e le succhiano rigirandosele in bocca: o lo scottano sulla stufa, e mangiano i pezzetti di pane abbrustolito color marrone scuro; o lo fanno cuocere nell´acqua bollita, fino ad ottenere una zuppa calda. I detenuti sognano il pane: pagnotte sospese a mezz´aria che riempiono le case, le strade, le campagne; o barattoli giganteschi di latte condensato, blu come il cielo estivo, forati in mille punti, che sgorgano e scorrono, formando il fiume della Via Lattea.
Come moltissimi prigionieri, Šalamov è marchiato. C´è, in primo luogo, il marchio originario: la lettera “t”, che significa “attività controrivoluzionaria trockista”; lettera, contrassegno, marcatura, stigmate, che li perseguita dappertutto per anni, relegandoli nelle miniere ghiacciate. Poi ci sono i marchi del freddo, della fame, della malattia, della fatica: le mani, abituate a tenere il piccone, assomigliano a protesi a forma di uncino: la pelle, desquamata, cade a scaglie, le gengive sanguinano, i denti cadono, le dita dei piedi suppurano per l´osteomielite: lo scorbuto procura piaghe nelle gambe, che poi vengono sostituite da scure macchie nerobluastre, una specie di marcatura a fuoco da schiavi; il viso è macchiato dal congelamento – «un timbro statale di cui il lager li ha bollati per sempre». Tutto diventa doloroso. Nemmeno sorridere è possibile – perché lacera le labbra ferite e le gengive infiammate dallo scorbuto.
Nell´orrore, nel gelo, nella notte, nella disumana fatica, i detenuti sono assolutamente soli: spesso le famiglie li abbandonano per timore, o essi abbandonano le famiglie, per non avere legami con nessuno e non essere «debitori di qualcosa a nessuno»; e nel lager l´amicizia non dura. Eppure essi resistono: molto più di qualsiasi animale, dei cavalli che muoiono per la fame e il gelo; «l´uomo non è diventato uomo perché è creatura di Dio, ma perché è fisicamente la più forte delle creature», capace di sopportare tutto ciò che la sua immaginazione malvagia ha creato. Alla fine, per moltissimi giunge la morte. C´è la morte per fame: la vita lascia i detenuti, poi ritorna, poi li lascia di nuovo, senza che si possa dire con certezza se sono vivi o morti. Nudi, spogliati di qualsiasi cosa, con un numero di riconoscimento alla caviglia, vengono gettati in fosse di pietra: non si decompongono e si pietrificano, perché il gelo li conserva; finché la montagna frana o viene scavata, e le tombe si spalancano. «Tutto è immortale: le dita ricurve delle mani, le dita purulente dei piedi, i monconi dei congelamenti, la pelle secca grattata a sangue, il luccichio famelico degli occhi».
I prigionieri abitano una sola dimensione del tempo, il presente: un solo luogo, il lager. Tutte le altre dimensioni spaziali e temporali sono abolite; e il mondo al di là dei mari e delle montagne, dal quale li separano tante verste e tanti anni, sembra una invenzione fantastica. Non fanno progetti che superino la fine del giorno: il lavoro nella cava, il piccone, l´argano, la cena, il sonno pieno di incubi. I sentimenti – «l´amore, l´amicizia, l´invidia, l´altruismo, la carità, la sete di gloria, l´onestà» – li abbandonano insieme alla carne perduta durante il digiuno. La memoria si rifiuta di accogliere i ricordi. I detenuti rinunciano a qualsiasi cosa, perfino a lottare per vivere: accettano le cose più terribili, come legni che seguono la corrente. Vivono nell´indifferenza, spremuti, svuotati, passando da minuto a minuto. Poi l´indifferenza scompare. Resta solo la rabbia – l´ultimo tra i sentimenti umani a sparire, perché è quello più vicino, come dice Šalamov, alle ossa del corpo. Pieno di odio, il cervello riduce al silenzio qualsiasi espressione verbale. L´indifferenza ritorna: torna una strana pace dell´anima; e i prigionieri cominciano a guardare con sempre maggiore distacco il sole rosso e freddo, le montagne, le cose spigolose e ostili.
Infine il gelo trasforma in ghiaccio prima il cervello, poi l´anima. Il cervello e l´anima sono pietrificati come i cadaveri nudi nelle montagne. Sarebbe improprio dire che l´uomo diventa animale, perché gli animali hanno sensazioni, sentimenti, devozioni, abitudini. Nel lager, si va oltre qualsiasi condizione umana e animale: non c´è più né bene né male, e nessuna delle determinazioni con cui siamo abituati a definire un organismo vivente. Tutti i limiti sono varcati: i confini superati; conosciamo per la prima volta un territorio che non abbiamo mai esplorato, e per il quale non abbiamo nomi.
Sopra questo gelo si estende la ferrea necessità. Qualcuno viene arrestato, un altro liberato, o fucilato, sia tra gli aguzzini sia tra le vittime: ma non c´è mai una ragione o una spiegazione. Tutto dipende dal caso, con cui la necessità gioca. Gli avvenimenti politici avvengono in uno spazio molto lontano, che non sembra avere rapporti con l´esistenza e il loro destino. Qualche volta, pare che «certe forze superiori si interessino a una piccola, insignificante tragedia»: l´accenno è discretissimo e ironico, e non sappiamo quali siano queste forze. Certo, non è Dio, di cui non c´è traccia nelle miniere e nelle montagne nevose. Qualsiasi cosa esista e accada è solo uno dei molti ingranaggi di un´enorme macchina sconosciuta, che agisce da sola, chissà perché, senza che nessuno la faccia funzionare. Mentre è nel lager, Šalamov ha la sensazione che «da qualche parte – sopra o sotto, nella mia vita non sono mai riuscito a saperlo – girino le ruote elicoidali che muovono la nave del destino». Ma scherza amaramente: non c´è nessun Dio, nessuno Stalin, nessun ingranaggio, nessuna ruota elicoidale, nessun destino. C´è il niente – e, sopra, l´orrore.
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