È uscito recentemente il libro di memorie del dott. Armando Spataro dall’eloquente titolo “Ne valeva la pena”. Il volume ha ovviamente – data la notorietà e il potere del personaggio – trovato subito molta attenzione
È uscito recentemente il libro di memorie del dott. Armando Spataro dall’eloquente titolo “Ne valeva la pena”. Il volume ha ovviamente – data la notorietà e il potere del personaggio ̶ trovato subito molta attenzione da parte dei media. Meno appare ovvio – almeno dal mio punto di vista ̶ è il fatto che abbia trovato l’accoglienza migliore in ambiti di sinistra, o almeno di quella che una volta si sarebbe considerata tale, ma che ora in effetti pare aver subito una mutazione genetica, tanto da trovare i suoi riferimenti in giornalisti dichiaratamente di destra quali Marco Travaglio e ancora di più in quella parte di magistrati che viene spesso considerata giustizialista. E che, guarda caso, corrisponde in buona parte a quella che a suo tempo gestì l’“emergenza antiterrorismo”, con annessi “eccessi”. “Eccessi” misurabili in sistematiche torture nelle caserme e nelle carceri, in morti evitabili, in processi sommari con distribuzione di millenni di anni di galera. Quegli stessi magistrati dell’emergenza e delle forzature del diritto, allora giustamente criticati da tutta la sinistra, ora ne paiono diventati i referenti. Misteri del tempo che passa, e della sinistra che perde le bussole, prima che i voti.
Fatto sta che il libro del procuratore è stato presentato in pompa magna alla Camera del Lavoro di Milano e lanciato da Gianni Barbacetto sul settimanale de “la Repubblica”. Addirittura, ha visto una recensione benigna di If sul sito “Bella Ciao”, che normalmente ha un taglio decisamente antagonista.
«Si può dissolvere la suggestione di ritenere flessibili i principi e ammissibili zone grigie in cui i diritti vivono in forma attenuata», scrive il dottor Spataro: pensavo fosse un’autocritica, invece si tratta della critica del procuratore aggiunto al comportamento dei governi dello Stato italiano nella vicenda Abu Omar. Una critica aspra soprattutto nei confronti del governo presieduto da Romano Prodi, colpevole di non essere stato sufficientemente prono nei confronti della magistratura giustizialista, categoria in cui il dottor Spataro sembra identificarsi al punto tale da usare al riguardo il plurale maiestatis.
Devo dire che conosco poco la vicenda in questione. E poco mi appassiona, se non per la naturale solidarietà nei confronti di una persona prelevata da casa e sballottata in carcere, per di più attraverso un vero e proprio sequestro di persona: ma per quanto riguarda la vicenda processuale in sé, mi sembra soltanto l’ennesima ripetizione della guerra interna tra servizi segreti, peraltro mai deviati. Non lo erano neppure quelli delle stragi degli anni Settanta: facevano solo il loro lavoro sporco per rafforzare l’autorità dello Stato. Del resto non si sono mai visti servizi segreti fare dei lavori puliti, per i quali non ci sarebbe bisogno di alcuna segretezza.
Del libro mi hanno colpito invece le pagine del tutto assolutorie del dottor Spataro nei confronti di se stesso nelle inchieste sulla lotta armata di sinistra in Italia, un argomento che conosco decisamente meglio.
Ora, sono sicuramente prevenuto nei suoi confronti, per un motivo che dico subito.
Il dottor Spataro dice che «il compito dei pm non è formulare ipotesi, specie in atti giudiziari, ma mettere a nudo la realtà con prove inconfutabili. E se ciò non è possibile, il pm si ferma». Sarà per questa ragione che, soltanto ed esclusivamente sulla base dei relata refero di due pentiti, ha chiesto nei miei confronti l’ergastolo per un omicidio, accusa rispetto alla quale sono stato assolto in primo grado per insufficienza di prove e in appello per non aver commesso il fatto, in base ai dettami del precedente codice di procedura penale, che permetteva di distinguere in maniera netta tra le due fattispecie.
Fatti scritti nelle sentenze della Corte d’assise e della Corte d’Assise d’Appello di Milano. Maliziosamente, mi verrebbe da dire oggi, visto il potere che il dottor Spataro ha accumulato in seno alla magistratura e non solo, che la prudente motivazione assolutoria di primo grado, rispetto a quella più decisa di secondo grado, sia da attribuire al fatto che il pm di primo grado fosse proprio lui.
Non sono mie illazioni, ma le sue considerazioni contenute nel libro. Quando dice, per esempio, di aver cassato, da consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), la candidatura per un organismo interno alla magistratura di un pretore che diciannove anni prima (diciannove anni!) aveva osato sottoporre a critica il suo operato. O, come quando, con estremo candore, sostiene di aver chiamato il direttore de “la Repubblica” di Milano, per dirgli di non dare la parola a Sergio Segio, una persona che comunque ha scontato la pena cui era stato condannato. Sarà un caso, ma Segio non ha più scritto su “la Repubblica”, del quale era collaboratore. Forse in base alla personale legge bavaglino del dottor Spataro. O come quando ha chiesto ai suoi colleghi di disertare un convegno a Torino sul carcere indetto dalla Camera penale, solo perché a parlare di questo tema era stato chiamato un ex detenuto, sempre Sergio Segio. Probabilmente, secondo Spataro, sarebbe stato meglio chiamare a parlare di carcere uno chef o un pasticcere.
Difficile anche pensare, a fronte di questi esempi rivendicati con la tenace convinzione di chi è nel giusto e non con la percezione della protervia che lo contraddistingue, che dei suoi colleghi magistrati potessero serenamente assolvere un ex carabiniere del nucleo speciale contro la lotta armata di sinistra e il giornalista intervistatore, per un articolo in cui si sosteneva una versione diversa da quella ufficiale, in merito alle notizie in possesso degli inquirenti prima e non dopo l’omicidio del giornalista del Corriere della Sera, Walter Tobagi. Far arbitrare una partita di calcio a uno dei calciatori delle due squadre farebbe gridare allo scandalo sportivo, far arbitrare un processo in cui è coinvolto, direttamente o indirettamente, un giudice, appare come una cosa normale. Ma non lo è.
Scrive Giorgio Galli in “Piombo rosso”, a proposito degli autori dell’omicidio: «Si tratta di un gruppo raccogliticcio, che Barbone descriverà così: “Marocco, Felice e la sua ragazza, Zanetti, Balice, un suo amico di Saronno, la moglie di Balice, Bellerè, De Silvestri, Gianni, un amico di De Silvestri, Rocco, (il postino, n.d.a.), Brusa e la ragazza di cui ignoro il nome, le sorelle Zoni, un certo Pranzetti (in realtà Franzetti, n.d..r.) dell’IRE, Colombo, Marchettino, pure dell’Ire di Varese, Battisaldo e sua moglie Piroli, Belloli Maria Rosa, un amico di Gianni, amico di De Silvestri”, oltre alla sua fidanzata, Caterina Rosenzweig, che Barbone non cita».
Non solo: «Difatti, come è scritto in un documento dell’inchiesta sulla Brigata Lo Muscio, datato 24 settembre e firmato dal pm Armando Spataro. “su ordine di cattura emesso dalla Procura della Repubblica di Milano, veniva arrestato dai CC del locale nucleo operativo Marco Barbone…I CC di Milano, inoltre, per una serie di ragioni che non è utile riassumere, avevano indicato in Marco Barbone uno dei probabili autori dell’omicidio di Walter Tobagi”. Nella requisitoria al processo dello stesso Spataro, scompare però questa “indicazione” dei CC».
La citazione è tratta da Quaderni radicali.
Strano ma vero, come nella Settimana Enigmistica.
Nota a margine: Caterina Rosenzweig era conosciuta da tutti i compagni come una militante delle Formazioni Comuniste Combattenti (FCC), ma lo era anche dalle forze dell’ordine, essendo stato trovato il suo passaporto dopo un attentato alla B Ticino. Evidentemente, non lo era per il dottor Spataro.
Altra nota a margine: per giustificare l’accanimento ossessivo che dimostra verso uno di loro, il procuratore sostiene di avere però dei buoni rapporti con altri di quelli che lui chiama ex terroristi. Per parte mia, continuo a sostenere che gli unici terroristi si sono rivelati lo Stato, i suoi servizi segreti e i suoi fedeli servi fascisti. Non a caso, gratificati oggi del potere. Ma si tratta, ovviamente, di un’opinione. Per il dottor Spataro gli “ex terroristi” con cui è in buoni rapporti sono comunque i pentiti; gli autori di dichiarazioni fuori verbale; e gli zerbini, a qualunque categoria: pentiti, dissociati o finti irriducibili, appartengano. Gli altri, anche a distanza di decenni, sono solo nemici da perseguire, per non dire perseguitare: il rancore come nuova categoria giuridica, ad personam, e la persona in questo caso non è l’attuale presidente del Consiglio.
Ultima nota a margine al riguardo della vicenda in questione: il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa disse, in un’intervista a Panorama, di aver utilizzato, per chiudere l’indagine sulla Brigata 28 marzo, la massima riservatezza, la conoscenza culturale dell’avversario, l’infiltrazione. L’infiltrazione di chi? L’ancora una volta ineffabile Spataro sostiene invece ancora che tutto deriva dalla confessione spontanea di Marco Barbone dopo l’arresto.
A negare l’evidenza.
E qui veniamo ad alcune palesi cambiamenti del piano di realtà che Spataro opera per dimostrare la sua atavica correttezza.
Si tratta di affermazioni, contenute nel libro di Spataro, che fanno a pugni con la verità:
- Sostiene Spataro che Rocco Ricciardi, il postino di Varese, non era un infiltrato, ma un confidente. Non sono due termini assimilabili: il confidente è uno che “soffia”, dall’esterno, informazioni conosciute nell’ambiente; l’infiltrato è uno che accetta di fornire informazioni dall’interno dell’organizzazione cui appartiene. Ricciardi era un infiltrato. Lo scrivono ex compagni, in un libro del 2000, con estrema lucidità. Dice l’introduttore al libro, un personaggio importante e serio della lotta armata, che «nel testo è descritta la genesi di un pentito, o meglio di un caso particolare di pentitismo: più che di un pentito si dovrebbe parlare di un infiltrato, anche se gli atti processuali non hanno mai voluto renderne conto. In genere, la decisione di collaborare è stata presa dagli interessati dopo l’arresto. In questo caso, invece, non ci fu neppure l’arresto, e la collaborazione arrivò fino al punto di tendere trappole agli ignari compagni per farli arrestare, o peggio». Il “per farli arrestare” è sintetizzabile nella cattura di sette militanti delle Formazioni Comuniste Combattenti presso il Bar Umberto I, in piazza Matteotti, a Como, il 28 maggio 1979. Ricciardi non arrivò a quell’incontro, per la semplice ragione che aveva venduto i suoi compagni.
- Ma c’è di peggio, di molto peggio. Rocco Ricciardi, lasciato libero, ha date le indicazioni per fare catturare il Br (già Fcc) Roberto Serafini. I carabinieri anziché catturarlo lo crivellarono di colpi in strada, assieme a un suo compagno, Walter Pezzoli. Si legge ancora nel libro-verità, a proposito di Roberto: «Eppure neanche quell’avvisaglia lo salvò anni dopo da una morte atroce ancor più dilaniante perché avvenuta proprio per responsabilità di quella stessa persona che tanto tempo prima, in una sera di brume, di laghi e di mal di pancia, a costo di forzare mille posti di blocco lo avrebbe portato sano e salvo fino all’altra parte del mondo». Sostiene invece Spataro che i carabinieri non erano appostati in via Varesina a Milano per uccidere Roberto Serafini e Walter Pezzoli, che si trovava con lui, ma per arrestare un dirigente della colonna Walter Alasia, operaio dell’Alfa Romeo, entrato in clandestinità. Roberto Serafini e Walter Pezzoli sono stati ammazzati come cani da decine di colpi: non un solo colpo, invece, risulta sparato dall’altra parte. Quel che si dice, in gergo, un agguato in piena regola. E il termine “ammazzati come cani non è gergale”: quella sera dell’11 dicembre 1980, sotto la gragnuola di colpi, fu ucciso anche un cane. Ridotto in un tale stato che i giornali del giorno dopo non riuscirono a stabilire se si trattasse di un dobermann o di un pastore tedesco. Forse è inutile aggiungere che il dirigente operaio della colonna Walter Alasia fu arrestato un anno dopo su un pullman dell’Autostradale tra Torino e Milano, senza colpo ferire. Il problema era che quel Rocco Ricciardi aveva detto ai suoi padroni che Roberto era un buon tiratore, e tanto era bastato per quella mattanza.
- Nel libro Spataro sostiene ovviamente il suo amico Eleuterio Rea, allora a capo della Digos. «Incominciò a picchiarmi il poliziotto Rea Eleuterio, mi avvolse una coperta sul torace e con un bastone mi percosse sul torace. Non so quanto stetti in quella stanza. Mi colpirono sulle tempie già gonfie, le fiammelle degli accendini sotto le punte dei piedi e sotto i testicoli, e il tentativo di introduzione del bastone nell’ano. Mi avevano convinto che dovevano andare dal magistrato e fare i nomi delle persone che avevano ucciso Torregiani. Mi portarono davanti a due persone in una stanza semibuia, solo in seguito seppi che quei due erano i giudici De Liguori e Spataro. Da dietro i poliziotti continuavano a suggerirmi di dire quello che avevo affermato davanti a loro, che era in parte quello che loro mi dicevano che avrei dovuto dire ai giudici». Si tratta di una testimonianza diretta di una persona arrestata il 17 febbraio del 1979 nell’inchiesta sui Proletari armati per il Comunismo. Ve ne sono anche altre, reperibili nel volume “Le torture affiorate”, edito da Sensibili alle foglie sull’uso della tortura, non sistematico ma puntuale in alcuni periodi, nei confronti dei militanti della lotta armata. Un argomento del tutto rimosso dai benpensanti di sinistra.
- L’acme però, il procuratore aggiunto lo tocca nel paragrafo dedicato a Giorgio Soldati. Giorgio Soldati era stato arrestato il 13 novembre 1981 alla Stazione Centrale di Milano dopo un conflitto a fuoco in cui era morto un agente di polizia. Picchiato, aveva fatto alcuni nomi e ammissioni. A mente lucida, aveva ritrattato quanto gli era stato carpito. Tanto era bastato per mandarlo nel carcere speciale di Cuneo. Erano mesi drammatici, in cui bastava essere sospettati di delazione per finire male: il periodo che, con l’espressione efficace, Valerio Morucci in “La peggio gioventù” chiama la “camorrizzazione” delle BR, in particolare del Partito Guerriglia. Lo sapevamo tutti cosa avrebbe atteso Soldati nel carcere di Cuneo. Solo Spataro sostiene di non saperlo. Intendiamoci: la responsabilità dell’uccisione di Giorgio è nostra. Dico nostra, perché quelli erano i sentimenti di frustrazione, rabbia e rancori da cui per la maggior parte eravamo attraversati negli speciali. Tutte le ricostruzioni di quell’episodio dicono di quasi un mese passato tra l’arresto e l’arrivo in sezione, il 10 dicembre, dove Giorgio ammette di avere detto delle cose. Si consegna a quella autoreferenziale e feroce giustizia autoproclamatasi proletaria. Ma chi l’aveva mandato lì difficilmente poteva non immaginare che sorte sarebbe toccata a Giorgio, così come toccò a Ennio Di Rocco a Trani. Per negare questa evidenza, Spataro arriva a sputare sul cadavere di Giorgio Soldati. Testuali e terrificanti parole: «Mi chiedo ancora se Soldati fosse ingenuo o fanatico o entrambe le cose». No, Giorgio era solo un compagno che aveva dato delle informazioni agli inquirenti, ma che non aveva la stoffa del delatore, per cui era tornato quasi subito sui suoi passi. Il problema non era lui, ma chi l’ha mandato in quel carcere. E ovviamente, chi lo ha ucciso: noi.
Oggi il signore che scrive queste cose è diventato un’icona incontrastata della sinistra giustizialista. In particolare – duole riscontrarlo ̶ di quell’autentico OGM in cui si è trasformata negli ultimi tempi Radio Popolare. Una radio in cui ormai capita di sentire il sociologo Nando Dalla Chiesa sostenere, senza alcuna obiezione da parte del conduttore, che la proposta di abolizione di una pena inumana come l’ergastolo è una follia. Da dove l’ex carabiniere Tavaroli e poi grande spione nella vicenda Telecom può svolgere ore di sua pubblica autodifesa o dove, appunto, il dott. Spataro può attaccare il solito Segio, senza ovviamente diritto di replica. In questo caso perché Segio ha corredato un suo libro con una dedica rivolta ai figli degli ex militanti, affinché almeno per loro si interrompa la catena del rancore infinito e della “mostrificazione” dei loro genitori.
Anche il dott. Spataro ha figli. Ai figli spesso si raccontano, giustamente, le favole. La prossima volta però racconti, almeno a loro, la verità. Tutta, non solo quella che fa comodo a lui.
Cecco Bellosi
22 luglio 2010
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