Una struttura teatrale ha preso il posto di una tendopoli a L’Aquila e qui è partita una rassegna teatrale inaugurata dall’artista argentino César Brie che ha portato in scena «Albero senza ombra». Storia (vera) di un massacro avvenuto ad opera degli squadristi a Pando in Bolivia. Ma l’effetto sconvolgente è il racconto di vite innocenti colpite a morte nello scenario funereo abruzzese
Una struttura teatrale ha preso il posto di una tendopoli a L’Aquila e qui è partita una rassegna teatrale inaugurata dall’artista argentino César Brie che ha portato in scena «Albero senza ombra». Storia (vera) di un massacro avvenuto ad opera degli squadristi a Pando in Bolivia. Ma l’effetto sconvolgente è il racconto di vite innocenti colpite a morte nello scenario funereo abruzzese
L’AQUILA. Può perfino fare impressione, mentre ci si inerpica per le montagne abruzzesi, il fatto di andare a vedere uno spettacolo all’Aquila, un anno dopo il terremoto e con tutte le polemiche che fanno risuonare di continuo il martirio della città distrutta. In realtà il teatro è un bel segno di ripresa della vita, privata e collettiva, da parte degli abitanti spettatori. E ce ne sono tantissimi di spettatori a San Demetrio, nella prima cintura del capoluogo, dove la struttura teatrale, anzi un vero teatro dal nome importante Nobelperlapace, ha preso il posto della tendopoli nel cuore del campo sportivo. Tiziana Irti e Giancarlo Gentilucci, con la loro associazione Arti e spettacoli, sono stati vigili e prodighi di iniziative fin dall’indomani della tragedia: hanno animato le scuole e le tendopoli, promosso pubblicazioni e richiamato spettacoli in mezzo alle difficoltà, che oggi si capiscono perfino maggiori di quelle che l’emozione e una perversa campagna pubblicitaria aveva fatto intuire.
L’altra sera è approdato a San Demetrio (a inaugurare una rassegna dalla programmazione che dal 23 luglio si farà piuttosto fitta, a partire da Briganti di Gianfranco Berardi) Cesar Brie, artista argentino per nascita, quasi italiano per frequentazione, boliviano per elezione, seguace di Eugenio Barba in Danimarca per formazione: insomma un vero cittadino del mondo. Brie ha portato qui alle porte dell’Aquila Albero senza ombra, un testo che ha appena debuttato alla fiorentina Fabbrica Europa, prodotto dal Centro di Pontedera. Un testo di molti personaggi, che Brie interpreta tutti passando rapidamente dall’uno all’altro, solo accostandosi uno scialle o una stampella cui è appeso un abito, mentre sparge farina o sassi, o spara qualche colpo a salve di pistola.
I molti personaggi di quell’Albero senza ombra, sono tutti morti, vittime di un massacro di campesinos realmente avvenuto, ad opera di squadristi, a Pando in Bolivia due anni fa, alla fatidica scadenza dell’undici settembre 2008. Su quel massacro Brie ha avuto modo di girare (assieme a Manuel Estrada e Javier Horacio Alvarez) un documentario su commissione, Morir en Pando, e quelle creature su cui si è trovato a «indagare» gli sono rimaste in qualche modo attaccate dentro. Sono loro, i morti di quella strage, che l’artista impersona e fa parlare. Furono undici quelli accertati , due tra gli squadristi per «fuoco amico», sei contadini e tre studenti che si erano uniti a loro. Di tutti loro l’artista racconta in prima persona le storie, spesso – confessa – mischiandole per dare maggior forza drammatica alla narrazione. Ma in ogni caso risulta ben chiaro il groviglio di complicità e corruzione che sulla vita dei campesinos, preme come un ricatto e un condizionamento senza scampo.
Non mancano le pennellate esistenziali, come per quella vittima che solo dopo la morte barbara si scoprì avesse lasciato tre mogli; o la dedizione degli studenti che spesso, prima di impegnarsi nella lotta sociale, avevano la possibilità di sicure carriere. Ma l’orrore maggiore che emerge da tutto il racconto è proprio quella ragnatela di corruzione e crudeltà poliziesche che dalla periferia boliviana si connette ad altre periferie oggi meno sospettabili, come l’Argentina (dove anche le madri di Plaza de Mayo sono scese in difesa del medico che ha permesso di scoprire il massacro boliviano, oggi in forte pericolo) o nella giungla venezuelana.
Sembra un racconto d’altri tempi, questo poetico excursus di Cesar Brie,che con passione ci scopre quanto ancora di violento e illegale ci sia nel continente sudamericano, e che qualcuno preferirebbe pensare ambientato trenta o quaranta anni fa. Ma l’effetto più sconvolgente, bisogna confessarlo, è sentire di quelle vite innocenti e oneste colpite a morte, proprio qui, nello scenario funereo dell’Aquila.
La mattina dopo, quando ci si può accostare con pudore alla parte distrutta della città, l’emozione violenta sembra riconnettersi all’ingiustizia ascoltata la sera prima nel teatro di San Demetrio. Quando scortati dall’efficienza rispettosa dei vigili del fuoco, si lambiscono le case distrutte e la vita interrotta e da un anno sospesa, sembra di vedere ancora quella fragilità destinata a soccombere. Qualcuno, sulla piazza dove ormai quotidianamente si riunisce il comitato degli abitanti, e sul corso dove riaprono bar e gelaterie, alla riconquista di una faticosa e parziale «normalità», qualcuno dice che arrivano già organizzati gruppi di «turisti voyeur», come fossero visitatori di Pompei ed Ercolano dopo l’eruzione. Forse è una leggenda metropolitana, ma è anche un meccanismo plausibile per esorcizzare l’orrore che abbiamo intorno e che continua imperterrito a svilupparsi, anche se non vogliamo vederlo. O che ci si può aggiustare seguendo le chiacchiere imbroglione di qualcuno del governo e della protezione civile, con le loro casette «da favola». L’orrore è un materiale potente: ripercorrerlo serve non solo a prenderne coscienza, ma anche, forse, a scendere in campo contro chi ne è responsabile. In Bolivia come all’Aquila. L’AQUILA
Può perfino fare impressione, mentre ci si inerpica per le montagne abruzzesi, il fatto di andare a vedere uno spettacolo all’Aquila, un anno dopo il terremoto e con tutte le polemiche che fanno risuonare di continuo il martirio della città distrutta. In realtà il teatro è un bel segno di ripresa della vita, privata e collettiva, da parte degli abitanti spettatori. E ce ne sono tantissimi di spettatori a San Demetrio, nella prima cintura del capoluogo, dove la struttura teatrale, anzi un vero teatro dal nome importante Nobelperlapace, ha preso il posto della tendopoli nel cuore del campo sportivo. Tiziana Irti e Giancarlo Gentilucci, con la loro associazione Arti e spettacoli, sono stati vigili e prodighi di iniziative fin dall’indomani della tragedia: hanno animato le scuole e le tendopoli, promosso pubblicazioni e richiamato spettacoli in mezzo alle difficoltà, che oggi si capiscono perfino maggiori di quelle che l’emozione e una perversa campagna pubblicitaria aveva fatto intuire.
L’altra sera è approdato a San Demetrio (a inaugurare una rassegna dalla programmazione che dal 23 luglio si farà piuttosto fitta, a partire da Briganti di Gianfranco Berardi) Cesar Brie, artista argentino per nascita, quasi italiano per frequentazione, boliviano per elezione, seguace di Eugenio Barba in Danimarca per formazione: insomma un vero cittadino del mondo. Brie ha portato qui alle porte dell’Aquila Albero senza ombra, un testo che ha appena debuttato alla fiorentina Fabbrica Europa, prodotto dal Centro di Pontedera. Un testo di molti personaggi, che Brie interpreta tutti passando rapidamente dall’uno all’altro, solo accostandosi uno scialle o una stampella cui è appeso un abito, mentre sparge farina o sassi, o spara qualche colpo a salve di pistola.
I molti personaggi di quell’Albero senza ombra, sono tutti morti, vittime di un massacro di campesinos realmente avvenuto, ad opera di squadristi, a Pando in Bolivia due anni fa, alla fatidica scadenza dell’undici settembre 2008. Su quel massacro Brie ha avuto modo di girare (assieme a Manuel Estrada e Javier Horacio Alvarez) un documentario su commissione, Morir en Pando, e quelle creature su cui si è trovato a «indagare» gli sono rimaste in qualche modo attaccate dentro. Sono loro, i morti di quella strage, che l’artista impersona e fa parlare. Furono undici quelli accertati , due tra gli squadristi per «fuoco amico», sei contadini e tre studenti che si erano uniti a loro. Di tutti loro l’artista racconta in prima persona le storie, spesso – confessa – mischiandole per dare maggior forza drammatica alla narrazione. Ma in ogni caso risulta ben chiaro il groviglio di complicità e corruzione che sulla vita dei campesinos, preme come un ricatto e un condizionamento senza scampo.
Non mancano le pennellate esistenziali, come per quella vittima che solo dopo la morte barbara si scoprì avesse lasciato tre mogli; o la dedizione degli studenti che spesso, prima di impegnarsi nella lotta sociale, avevano la possibilità di sicure carriere. Ma l’orrore maggiore che emerge da tutto il racconto è proprio quella ragnatela di corruzione e crudeltà poliziesche che dalla periferia boliviana si connette ad altre periferie oggi meno sospettabili, come l’Argentina (dove anche le madri di Plaza de Mayo sono scese in difesa del medico che ha permesso di scoprire il massacro boliviano, oggi in forte pericolo) o nella giungla venezuelana.
Sembra un racconto d’altri tempi, questo poetico excursus di Cesar Brie,che con passione ci scopre quanto ancora di violento e illegale ci sia nel continente sudamericano, e che qualcuno preferirebbe pensare ambientato trenta o quaranta anni fa. Ma l’effetto più sconvolgente, bisogna confessarlo, è sentire di quelle vite innocenti e oneste colpite a morte, proprio qui, nello scenario funereo dell’Aquila.
La mattina dopo, quando ci si può accostare con pudore alla parte distrutta della città, l’emozione violenta sembra riconnettersi all’ingiustizia ascoltata la sera prima nel teatro di San Demetrio. Quando scortati dall’efficienza rispettosa dei vigili del fuoco, si lambiscono le case distrutte e la vita interrotta e da un anno sospesa, sembra di vedere ancora quella fragilità destinata a soccombere. Qualcuno, sulla piazza dove ormai quotidianamente si riunisce il comitato degli abitanti, e sul corso dove riaprono bar e gelaterie, alla riconquista di una faticosa e parziale «normalità», qualcuno dice che arrivano già organizzati gruppi di «turisti voyeur», come fossero visitatori di Pompei ed Ercolano dopo l’eruzione. Forse è una leggenda metropolitana, ma è anche un meccanismo plausibile per esorcizzare l’orrore che abbiamo intorno e che continua imperterrito a svilupparsi, anche se non vogliamo vederlo. O che ci si può aggiustare seguendo le chiacchiere imbroglione di qualcuno del governo e della protezione civile, con le loro casette «da favola». L’orrore è un materiale potente: ripercorrerlo serve non solo a prenderne coscienza, ma anche, forse, a scendere in campo contro chi ne è responsabile. In Bolivia come all’Aquila.
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