«La crisi globale è una fortuna»

Per il teorico della «decrescita» Serge Latouche la recessione mondiale può aiutare a ripensare il modello produttivistico prevalso finora. Nonostante le sinistre europee si affannino dietro a discorsi contraddittori. E anche se i cittadini appaiono disincantati

Per il teorico della «decrescita» Serge Latouche la recessione mondiale può aiutare a ripensare il modello produttivistico prevalso finora. Nonostante le sinistre europee si affannino dietro a discorsi contraddittori. E anche se i cittadini appaiono disincantati PARIGI. L’economista francese Serge Latouche è conosciuto nel mondo intero come il teorico della «decrescita» (tra i suoi ultimi libri tradotti in italiano, «L’invenzione dell’economia», Bollati Boringhieri, 2010; «Mondializzazione e decrescita»; «L’alternativa africana», Dedalo, 2009;« Breve trattato sulla decrescita serena», Bollati Boringhieri 2008; «La scommessa della decrescita», Feltrinelli, 2007). Di fronte alla crisi in corso, Latouche, pessimista nell’analisi della situazione attuale, apre uno spiraglio di ottimismo. «La crisi può aiutarci» afferma.Gli stati corrono dietro ai mercati finanziari, che dettano legge, dopo essere stati salvati da questi stessi stati. Che cosa sta succedendo?

Non si può fare nulla, perché nessuno vuole fare niente. Ma quello che succede è molto interessante. C’è stata una prima manche, nell’agosto del 2007, con la crisi dei subprime negli Usa, una catastrofe annunciata. I governi europei ci hanno raccontato che la crisi era solo finanziaria e limitata agli Stati uniti. Poi, quando il 16 settembre 2008 è crollata la Lehman Brothers, nessuno ha potuto più nascondere che la crisi era mondiale ed era anche economica. E che durerà a lungo. Nel aprile del 2009, al G20 di Londra, hanno promesso di moralizzare il capitalismo finanziario, di mettere al passo i mercati, di abolire i paradisi fiscali. Ma prima, ci hanno detto, bisogna salvare le banche. Il G20 è stato una presa in giro. La speculazione ha ripreso come prima, forse ancora più di prima; le banche hanno incassato gli aiuti senza cambiare nulla. La seconda manche ha luogo adesso. È la rivincita del sistema finanziario internazionale sugli stati che l’hanno salvato. Era difatti un’illusione pensare che salvando il sistema finanziario si sarebbe cambiata la natura delle cose. Le regole del gioco avrebbero dovuto essere cambiate prima di salvare le banche. Ma nessuno lo voleva, né gli Stati uniti, né la Gran Bretagna, né la Francia, né altri. Oggi, gli stati strozzati dai vincoli finanziari si lanciano in una specie di concorrenza all’austerità. La Germania promette di ridurre i salari del 20%, la Spagna dice che li diminuirà del 30%, la Gran Bretagna del 40% ecc. E ritardare l’età della pensione. E i popoli accettano abbastanza facilmente i sacrifici imposti, con un certo masochismo.

Non le chiedo di fare previsioni, ma ci sarà una terza manche?

La terza manche sarà il crollo dell’economia mondiale. Siamo sotto la minaccia di una deflazione mondiale. Le cose potrebbero cambiare, ma il problema è che la speculazione contro gli stati soffoca l’emergere di una vera alternativa. Non significa che un’alternativa non esista, ma che non riesce a farsi sentire. L’alternativa è né austerità né rilancio, l’uscita della società della crescita. La sinistra europea è impantanata in un linguaggio duplice. Vogliono farsi eleggere su un programma di rilancio economico e non si danno i mezzi per elaborare una politica che non deve essere di rilancio e che, al tempo stesso, non deve cadere nella corsa a sempre maggiore austerità. Il gioco politico è riuscito a soffocare l’emergere di una vera aspirazione popolare. Malgrado, in Italia come in Francia, ci siano milioni di persone contro i governi in carica. La gente è demoralizzata. E come non potrebbe esserlo? In Grecia hanno votato per una politica e poi gliene hanno imposta un’altra. La sinistra da troppo tempo si è persa nella trappola del produttivismo, che per un certo periodo, non bisogna negarlo, ha dato dei risultati. Per me, la sola possibilità auspicabile è la costruzione di una società di sobrietà condivisa, di decrescita. Ma è difficile, con la demagogia imperante dell’austerità che dovrebbe portare la crescita. La soluzione non è né l’austerità né il rilancio, ma passa invece per un cambiamento dei paradigmi, di una nuova spartizione della ricchezza. Bisogna uscire dal capitalismo, per usare una parola grossa.
C’è una prospettiva a livello europeo?
Bisognerebbe reinventare l’Europa. Effettuare un cambiamento completo. Lo vedo però difficile con la Germania, che ha alle spalle un’esperienza storica particolare. Il miracolo tedesco è stato permesso dal neo-liberismo del dopoguerra, poi imposto al sistema europeo. Esiste l’Europa dei mercati, ma non l’Europa politica. Con l’euro, i mercati impongono una politica anti-inflazionistica. Ma solo con l’inflazione gli stati potrebbero pagare i loro debiti colossali e potrebbe realizzarsi l’eutanasia del rentier, auspicata da Keynes. Ma ora i rentier sono resuscitati, hanno strappato 10 punti di pil europeo ai lavoratori, che ne hanno perso altrettanti. Un’Europa dei popoli potrebbe nascere, forse più facilmente con i paesi del sud (Spagna, Italia, Portogallo). Ma per questo, nell’immediato, bisognerebbe che paesi come la Francia o l’Italia uscissero dall’euro, prima che questa scelta venga proposta e sfruttata da partiti populisti. L’euro è pilotato dalla Bce, non lascia alcuna possibilità per attuare una politica monetaria e di bilancio. Con l’euro è stato messo il carro davanti ai buoi. Prima della moneta, avrebbe dovuto essere varata una politica comune, a cominciare da quella fiscale. Ma, al contrario, i paesi europei si sono lanciati in una concorrenza fiscale al ribasso.
Non crede nella possibilità di una crescita diversa, attraverso l’economia cosiddetta verde?
Solo se si cambia software, se ci si orienta verso una società che non obbedisca più alla logica della crescita illimitata. Gli investimenti verdi valgono come riconversione, non se vengono posti in termini di rilancio. Ma oggi sono inseriti in una stessa logica di produzione. La situazione è spaventosa, la disoccupazione giovanile è al 30% in Spagna, al 25% in Italia, in Francia è di poco più bassa. Con la terza manche, la situazione non sarà peggiore per i disoccupati, ma sarà peggio per le multinazionali e i banchieri. È il solo modo per fermarne l’arroganza. La crisi sarà mondiale, perché i mercati sono legati uno all’altro. Ma il futuro non è già segnato. C’è una spada di Damocle sul sistema: si tratta della creazione di averi finanziari attraverso i prodotti derivati. Sono i dati della Bri (Banca dei regolamenti internazionali) di Basilea: 600mila miliardi di dollari di prodotti derivati, una cifra che rappresenta più o meno 15 volte il pil mondiale, che va messa a confronto con i 5mila miliardi stanziati per salvare le banche o i 750 miliardi di euro messi dall’Europa per far fronte alla crisi della Grecia e di altri stati. Siamo in un sistema di fiction, di speculazione fantastica, che può crollare, soprattutto con le politiche deflazionistiche messe in atto oggi. In Occidente, abbiamo vissuto una parentesi storica, grazie all’economia del petrolio. In Europa è come se ogni cittadino avesse avuto a disposizione 50 schiavi, 150 negli Usa. L’industrializzazione in Europa è stata terribile tra il 1750 e il 1850, poi è andata meglio dal 1850 in poi, con lo sfruttamento del carbone e del petrolio, ma a scapito degli altri, del terzo mondo e della natura. Quando facciamo il pieno mettiamo nel serbatoio un’energia equivalente a 5 anni di lavoro di un operaio. I ricchi sono diventati più ricchi e i poveri meno poveri e hanno persino avuto l’illusione di diventare ricchi. Ma adesso la festa è finita. Non sarà mai più cosi, neppure nei paesi emergenti, come la Cina, dove i contadini sono cacciati dalla terra come lo erano in Gran Bretagna nel XIX secolo. La sola soluzione è un’organizzazione diversa, ricostruire una società meno ineguale, più rispettosa dell’ambiente. Per questo dico che la crisi può aiutarci.

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