Il Foglio di sabato scorso ha dedicato un’intera pagina a commentare un mio articolo sulla crisi della Fiat di Pomigliano corredando il servizio con il pugno di Lotta Continua, il gruppo in cui ho militato negli anni settanta e che si è dissolto 34 anni fa. Troppa grazia. La cosa ha offerto a molti miei critici l’occasione per dare la stura ai più triti stereotipi sugli anni 70 e sull’ambientalismo, quasi non avessero mai letto o sentito parlare prima di green economy o di riconversioni produttive. Per Stefano Cingolani: «in certe assemblee gauchiste c’era chi si alzava proponendo che la Fiat fornisse brandine agli ospedali». Che assemblee avrà mai frequentato Cingolani in quegli anni?
Il Foglio di sabato scorso ha dedicato un’intera pagina a commentare un mio articolo sulla crisi della Fiat di Pomigliano corredando il servizio con il pugno di Lotta Continua, il gruppo in cui ho militato negli anni settanta e che si è dissolto 34 anni fa. Troppa grazia. La cosa ha offerto a molti miei critici l’occasione per dare la stura ai più triti stereotipi sugli anni 70 e sull’ambientalismo, quasi non avessero mai letto o sentito parlare prima di green economy o di riconversioni produttive. Per Stefano Cingolani: «in certe assemblee gauchiste c’era chi si alzava proponendo che la Fiat fornisse brandine agli ospedali». Che assemblee avrà mai frequentato Cingolani in quegli anni? Non certo l’assemblea operai-studenti di Mirafiori, dove si parlava di cose molto serie, che hanno fatto la storia del paese. Scrive Sergio Soave: «Viale ripropone la tesi dell’imminente crollo del capitalismo». Ma quando mai? E riassume il mio pensiero così: «una nuova sintesi di deindustrializzazione e mangiatori di fragoline di bosco». Francesco Forte mi attribuisce «la teoria per cui il capitalismo è un imbroglio e l’economia di mercato una mistificazione». Magari lo penso; ma non l’ho certo scritto e non sta tra le premesse del mio discorso. Analogamente Gianni Riotta, sul Sole24ore, mi accusa di «dare del venduto a Cisl e Uil e quasi tutta la Cgil», e addirittura, al premio Nobel Paul Krugman, per aver scritto che per dar credito al piano della Fiat per Pomigliano bisogna essere in malafede o dementi. Sul dementi mi attengo al giudizio degli interessati. Ma si può essere in malafede senza essere venduti. Basta dar credito senza dare spiegazioni a cose che non lo meritano. E’ quello che fa Riotta e, con lui, quasi tutti i sostenitori del piano Marchionne: non si chiedono se il piano è credibile. Su questo punto diamo la parola al Foglio.
Scrive Ernest Ferrari: «D’accordo, il piano di sviluppo targato Marchionne è irrealizzabile». Risponde Bruno Manghi: «Quella di Marchionne è una scommessa che nessuno può prevedere con certezza come finirà». Ammette Riccardo Ruggeri, uno che conosce la Fiat «dall’interno»: «Sui sei milioni di macchine Viale non ha tutti i torti». E aggiunge: «Magari tra non molto Marchionne chiederà altri sacrifici, perché il mercato non tira. Marchionne l’ha fatto capire più di una volta». Poi precisa: «ho paura che stia tornando la moda dei volumi (di vendite)piuttosto che dei talenti…anche alla Volkswagen hanno sposato la teoria dei volumi; ma ci hanno messo 15 anni, investendo una montagna di soldi». «Insomma, c’è aria di bluff?» chiede l’intervistatore. E lui risponde: «Marchionne fa quel che può».
Anche Cingolani si chiede: «Chi può garantire che le auto non restino sui piazzali? E quanto costeranno i modelli sfornati dalle catene di montaggio?» Domande senza risposta. Cingolani le affronta con un suo personale «piano B»; questo sì, datato agli anni ’70: quando i cosiddetti paesi emergenti adottavano le tecnologie abbandonate dai paesi più industrializzati, e questi passavano a produzioni a più alto valore aggiunto (Era la teoria di Hirschmann delle “anatre volanti”, che si alzano in volo in ordine, una dietro l’altra). Ma oggi Cina, India e Brasile hanno, sì, costi del lavoro e ambientali più bassi; ma anche livelli tecnologici paragonabili ai nostri e capacità di ricerca e sviluppo superiori (anche perché da noi scuola e ricerca sono state gettate alle ortiche). Inoltre, senza impianti di assemblaggio a portata di mano, l’innovazione tecnologica e organizzativa non ha verifiche. Quindi, perché il distretto automobilistico torinese possa mantenere i suoi atout in campo motoristico e dello styling, una parte del montaggio dovrà comunque restare in Italia. Ma non è detto che tocchi a Pomigliano. Nell’assemblaggio, più che altrove, a contare sono i costi. Lo conferma Michele Magno: «La sorte dello stabilimento campano è legata a un drastico abbassamento dei costi». L’unico a non nutrire dubbi sul piano Marchionne è Francesco Forte. E sapete perché? Perché «il piano è stato valutato positivamente dalle banche e dalla borsa»: due istituzioni che hanno raggiunto la credibilità più bassa della loro storia.
Fatto sta che, se è improbabile riuscire a vendere sei milioni di auto all’anno (un raddoppio della produzione) sui mercati di un’industria sovradimensionata e oggetto di una feroce concorrenza non solo tra gruppi industriali, ma anche tra Stati, l’aumento della produzione in Italia da 600mila a 1,4 milioni di vetture è ancora più improbabile; soprattutto perché questa produzione dovrebbe per due terzi essere smerciata in Europa. Le sorti di Pomigliano sono legate a questi obiettivi. Qualcuno ha provato a spiegare come raggiungerli? O si vuole far credere che l’unico vero problema è l’abnorme tasso di assenteismo e che un maggiore impegno contro di esso rimetterebbe le cose a posto?
Persino Riotta introduce qualche variabile in più. Oltre all’assenteismo, scrive «per giocare nella Coppa del mondo del lavoro» bisogna fare i conti con «clientele, performance scadenti, familismo amorale, raccomandazioni». A cui io aggiungerei doppio e triplo lavoro (ma non sarà un problema di salari insufficienti?), degrado del territorio, monnezza (da non dimenticare), sfacelo amministrativo, corruzione, collusioni politiche, camorra. Tutti problemi che non si sono certo fermati ai cancelli della fabbrica, ma che sono ben presenti al suo interno.
Nel management più ancora che tra le maestranze. Pensare di isolare la fabbrica dal territorio e di risolvere i suoi problemi con la disciplina del lavoro è utopia vana e crudele.
Nel 1968 la Fiat pensò di inquadrare con una disciplina di ferro 15mila nuovi assunti, messi al lavoro a Mirafiori tutti d’un colpo, senza preoccuparsi di che cosa sarebbe successo fuori della fabbrica: nel tessuto urbano di una città che tra l’altro era “sua”, ma dove per i nuovi assunti non c’era nemmeno un posto per dormire. Ne nacque una lotta che ha sconvolto gli stabilimenti del gruppo per i successivi dodici anni. Adesso si pretende di mettere in riga, con un accordo sui turni e i ritmi di lavoro e con i limiti posti al diritto di scioperare e ammalarsi, uno stabilimento industriale i cui problemi nascono soprattutto dal degrado del tessuto sociale circostante. Non dice niente, per esempio, il fatto che a presidiare il gazebo installato a sostegno dell’accordo ci fosse il sottosegretario Cosentino, incriminato per camorra, ma “immunizzato” dal Pdl?
Nessuno, prima di Prodi, aveva ancora fatto notare che la “rieducazione” degli operai di Pomigliano – per usare il termine carcerario che ben si adatta al modo in cui l’establishment italiano, politico, sindacale, imprenditoriale e giornalistico, sta affrontando il loro futuro – è già stata tentata due anni fa: con la sospensione dell’attività lavorativa, l’invio forzato di tutte le maestranze a un corso di formazione, il riadeguamento degli impianti, la rimessa a nuovo dei capannoni. Senza risultati.
Chi può credere, allora, che Marchionne voglia ritentare l’esperimento, investendoci sopra 700 milioni? Rischiando anche di mettere in crisi i suoi rapporti con il partner polacco, che in questa fase è uno dei pochi atout a sua disposizione? Non è forse più sensato ritenere, o almeno ipotizzare, che Marchionne voglia sbarazzarsi di Pomigliano, oltre che di Termini Imerese; e non potendo farlo senza mettere in crisi i suoi rapporti con governo, opposizione, sindacati e maestranze – magari provocando anche una rivolta tra la popolazione – cerchi solo il modo per farne ricadere su altri la responsabilità? Se non sarà l’esito del referendum (verosimilmente non lo sarà) sarà la Fiom. Se non sarà la Fiom sarà l’iniziativa di base; o il “disordine” del territorio; o i contenziosi in tribunale; o un ricorso alla Corte Costituzionale. O, più semplicemente, il prossimo aggiornamento sulla situazione dei mercati. Intanto, a segnare un punto, è stata la politica antioperaia di tutto il governo.
Sembra però che la conversione ambientale dello stabilimento di Pomigliano, o di altre fabbriche in crisi, urti contro la centralità della produzione automobilistica (una volta la centralità era della classe operaia, ma i tempi sono cambiati). «E’ indubbio – scrive Michele Magno – che il settore automobilistico, pur maturo sul piano merceologico e tecnologico, continui a incarnare lo spirito del tempo»; perché «continua a svolgere un ruolo cruciale sia nella formazione del Pil, sia nella dinamica occupazionale»; e perché «il cuore delle innovazioni organizzative…continua a pulsare qui».
Nessuno però ha proposto di chiudere il settore automobilistico dall’oggi al domani. Basterebbe non strafare con i volumi, come raccomanda anche Ruggero. E non gravare un gruppo già provato con un peso che probabilmente non può sostenere. «E’ in gioco – continua Magno – il futuro di quel che resta della classe operaia meridionale». D’accordo. Ma, proprio per questo, non sarebbe bene pensare a delle alternative per uno stabilimento così a rischio?
Per verificare se è vero che l’azienda vorrebbe sbarazzarsi di Pomigliano bisognerebbe poterla mettere di fronte a una alternativa praticabile, esigendo impegni precisi a garanzia del processo di conversione. Non certo di assumerne la gestione, per la quale vanno comunque individuati soggetti, attori e culture aziendali differenti. Bensì la cessione degli impianti e il finanziamento della transizione. Ma oggi un’alternativa del genere non c’è. Nessuno ci ha pensato; e nessuno sembra neanche in grado o disposto a pensarci; anche se l’adozione di un’alternativa praticabile converrebbe sicuramente sia alla Fiat, che ai lavoratori, che al paese. E anche al pianeta.
Ma nessuno potrebbe mai pensare di avviare la riconversione di uno stabilimento industriale alla green economy con una semplice stretta della disciplina di fabbrica, come molti pensano – e sperano – che si possa fare invece trasferendo la Panda a Pomigliano. Perché una conversione produttiva di quella portata e con quelle finalità è proprio l’opposto di quell’idea “larvatamente autoritaria” di chi dice «Farò io il vostro bene» pensando di poter «pianificare le svolte dello sviluppo», come sostiene Bruno Manghi sul Foglio e Riotta ripete sul suo giornale.
Infatti, se non si può pensare di cambiare una fabbrica solo con la disciplina, occorre passare attraverso la mobilitazione delle forze sane del territorio, una discussione sulle ragioni della conversione, un coinvolgimento delle risorse intellettuali delle comunità interessate. Per poi procedere a verifiche di mercato, a progettazioni di massima, e alle battaglie per impegnare i diversi livelli del governo locale e nazionale. Sono cose che non si preparano né in un giorno né in un anno; c’erano però da anni molti motivi per cominciare a lavorarci. Ma non è mai troppo tardi. Perché se il piano Marchionne è un bluff, bisognerebbe evitare di ritrovarsi nella situazione di Termini Imerese, dove ogni giorno si escogitano altri bluff con il solo scopo di «tener buoni» gli operai lasciati sul lastrico.
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