Non è da dubitare sul diritto di scrivere di Susanna Ronconi e Sergio Segio; è da dubitare che, facendosi eco dei sentimenti dei familiari delle vittime, i magistrati di Torino agiscano nello spirito della legge
Susanna Ronconi e il suo compagno Sergio Segio, già militanti di Prima Linea, dissociati, sono oggi, dopo diversi anni di detenzione, in semilibertà e lavorano presso la comunità di don Ciotti. Hanno o no diritto di scrivere sul suo o su altri giornali? Alcuni familiari delle vittime ritengono che non debba più avere parola chi ha dato la morte, e hanno chiesto ai magistrati di Torino di impedirglielo. Anche l’architetto Sergio Lenci, che è stato oggetto d’un attentato, chiede che non abbiano diritto alla parola se non per riconoscere le gravi conseguenze di averne «spezzato l’uso impugnando la P38». Non siamo di fronte a sottile questione di legge, ma a una grossa questione morale. Nessuna legge proibisce a un detenuto di scrivere (se non in isolamento per non pregiudicare l’istruttoria, o dopo rivolte in carcere o simili). Naturalmente, come tutti i cittadini, è punito se scrivendo induce a un reato, ma non è questo il caso: Susanna Ronconi e Sergio Segio lavorano sugli emarginati e tossicodipendenti, e di questo scrivono, attività che, svolta da chiunque altro, si ritiene meritoria. Dunque c’è dell’altro: si pensa che, forse per essere interiormente gratificati da questa esperienza e aver qualcosa da dire, non “espierebbero” davvero. La “pena” non sarebbe abbastanza penosa. E scrivere li rende “visibili”, mentre chi ha ucciso non può farsi vedere se non in ginocchio e mentre si batte il petto.
È un ritorno medioevale, furente, che si può spiegare dal dolore provato, ma va contro i principi di fondo che reggono la nostra Repubblica. Va contro, anzi, a qualsiasi stato di diritto che, come buon senso comanda, non consente di decidere come si applica la giustizia a chi è stato colpito nella persona o nei sentimenti, perché è naturale l’istinto di vendetta. Giustizia la fa lo stato, che difende tutti i valori della comunità , e applica la pena secondo la legge. E la nostra legge vuole che la pena impedisca la libertà , ma non sia altrimenti afflittiva (e già di per sé il carcere lo è) e miri a un recupero del condannato. Come potrebbe interdirgli la parola? Non è da dubitare sul diritto di scrivere di Susanna Ronconi e Sergio Segio; è da dubitare che, facendosi eco dei sentimenti dei familiari delle vittime, i magistrati di Torino agiscano nello spirito della legge.
La vendetta non sta nella nostra Costituzione. Se vi stesse, avremmo nel codice la pena di morte: il cui senso è che ci siano delitti che cancellano come uomo o donna coloro che li hanno commessi, per cui lo stato si incarica di toglierli dalla faccia della terra. Fortunatamente l’Italia ha rifiutato questa tesi. E chi, per troppo dolore, chiede che chi ha ucciso non sia più donna o uomo a parte intera, rompe anchàegli un patto di cittadinanza; in modo non cruento, ma lo rompe.
C’è indulgenza, oggi, per questa vendicatività . «Bisognerebbe ammazzarli tutti», si sente dire in autobus. E dalle donne non meno che dagli uomini, tanto più che “tutti” non ha faccia, è un nemico indefinito. Di fronte alla persona viva e presente gli stessi direbbero: «Anche lui è figlio di mamma». Dovremmo rifiutare l’una e l’altra battuta. Volere che ognuno possa sempre riprendere il cammino della vita in senso responsabile e pieno, sarebbe anche verso i morti il gesto più alto di pietà .
(“Noi Donne”, settembre 1993)
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