Cesare Maino, una vita di lotte e di galera: il destino, si diceva e si sapeva una volta, di ogni vero rivoluzionario
È morto Cesare. Da più di un anno, l’abbiamo saputo solo adesso. Cesare Maino, una vita di lotte e di galera: il destino, si diceva e si sapeva una volta, di ogni vero rivoluzionario.
Da ragazzo, nella sua Genova, aveva già scelto da che parte stare, con la sua maglietta a strisce, sulle barricate contro il governo Tambroni. Già allora, nel luglio ’60, provò sulla sua pelle qual era la risposta per chi si ribella: repressione, morte in piazza. E galera. Per lui, quella volta, solo 8 mesi, un assaggio di quel che lo aspettava, assieme a migliaia di altri.
Poi le lotte del à68 e l’esasperata coerenza, Feltrinelli, i GAP e la XXII ottobre, le BR e i , la tragica suggestione delle armi come strumento di giustizia e liberazione, come distanza, etica e politica, da chi la rivoluzione la predicava a parole.
La rivoluzione può essere un abbaglio ma non è un pranzo di gala. Lui ne era cosciente e andò avanti, con tutti gli errori e le durezze che non cancelleranno mai la generosità di una vita spesa per il sogno di una cosa, che allora si chiamava comunismo.
Ne ha pagato tutti i prezzi, e qualcuno di più. Dal 1972 una vita di carcere, di pestaggi, di evasioni impossibili, di celle d’isolamento.
Poi, infine, quella specie di libertà che è solamente assenza di galera. Un nuovo isolamento, forse più feroce, più duro da sopportare. La sofferenza di una libertà che emargina, che stritola vite e memoria, che consegna agli stenti e seppellisce ai margini, che fa pagare sino all’ultimo il prezzo del sogno e della condizione sociale. Che frantuma le comunità dei valori e degli affetti. Che rende invisibili le vite e anche le morti. Vite pesanti come macigni, morti leggere come piume. È passato un anno e mezzo e nessuno làha saputo. Forse, quel 22 maggio 1993, con l’ultimo respiro avrà avuto un ultimo, terribile e doloroso, pensiero: dove siete, dove siamo finiti tutti?
(Novembre 1994)
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